Oggi non sono di buonumore. Anche chi fa il mio lavoro non è immune dai momenti bui è dalle preoccupazioni.
Rifletto sulla vita, sulla sua bellezza e bruttezza al tempo stesso. Sulle fatiche che ci obbliga a compiere per essere sempre qua o là e a volte qua e là al tempo stesso, efficienti, belli, performanti, magri, sorridenti, buoni figli, buoni genitori, buoni compagni di vita.
Rifletto sulla fatica del vivere in perenne equilibrio tra la profondità e la leggerezza, il baratro e il belvedere.
Penso agli anni che passano, al futuro, al passato, a quella linea indefinita tra ieri e domani che nei momenti bui amalgama tutto e tutto diventa oggi.
Diventare adulti, forse, non significa soltanto fare l’inventario degli anni che passano, con tanto di conta delle sciagure, del non fatto e delle rughe, ma assaporare anche il vuoto, stare fermi con lui e scegliere di non arredarlo.
Credo di aver capito che parlare non significhi sempre dire, e che si possa anche scegliere con chi parlare e con chi tacere e anche di non ascoltare.
Ho capito anche che chi sta in silenzio non sempre ascolta ma talvolta punisce.
Negli anni si fanno i conti con quello che abbiamo e non solo con quello che ci manca. Ho riflettuto sul concetto di lavoro – io sono stata un’abbandonatrice seriale del posto fisso – e ho capito che lavorare non significa soltanto avere un conto in banca florido, ma anche essere felici e stare bene con sé stessi e con quello che si sceglie di essere e fare.
Anche l’affettività è luminosa e tenebrosa, ed è stata sempre il mio chiodo fisso. Mi ha tormentata sin da quando ero ragazzina, ho scelto di studiarla per capirla e poi di scriverne per capirla ancora di più. Ma forse va solo vissuta e non compresa.
Penso che chi sceglie di scrivere per vivere o sopravvivere abbia un deficit di comprensione. Ogni qual volta non capisco, e devo dire che accade spesso, mi fermo e scrivo, riscrivo, rileggo, e poi sto decisamente meglio.
Continuo a dover convivere con la mia malattia e la mia cura: la scrittura.
Penso di aver capito che amare non significhi possedere, che le diversità possono anche essere un dono, che un figlio è di sé stesso e non di un genitore, e che anche se li abbiamo messi al mondo e li amiamo più della nostra stessa vita, la vita è la loro e non la nostra. E che tutto questo attrae e atterrisce al tempo stesso.
Poi guardo gli animali – tutti non solo quelli che ho la fortuna di avere nella mia vita -, e penso fermamente che rendono migliore questo mondo e che spesso non ce li meritiamo.
Lo ingentiliscono, lo impreziosiscono, lo rendono luminoso e mai cupo (a renderlo cupo ci pensiamo da soli).
Penso alla fatica di trovare sé stessi – c’è chi vive tutta la vita all’insaputa di sé stesso – di accettarsi, farsi accettare e non modificarsi o farsi modificare in funzione degli sguardi giudicanti o compiacenti altrui.
Ho capito, negli anni, soprattutto negli ultimi, che essere gentili e anche simpatici è più difficile dell’essere aggressivi, sfuggenti, schivi, burberi.
Che essere adulti è faticoso e che le strade pianeggianti sono più popolate di quelle irte di difficoltà.
Che le buone parole e le persone buone fanno bene al cuore e alla salute. Che sognare è una medicina salva-vita, necessaria come antidoto alle brutture della vita.
Ho sempre amato viaggiare e il tema dell’altrove ha sempre affascinato il mio mondo e la scrittura. Ma negli anni ho capito che si può viaggiare anche da fermi per vedere le terre più belle e inesplorate che ci siano.
E si può andare dall’altra parte del mondo e lasciare il cuore in un cassetto e non vedere niente: né con gli occhi, né con il cuore.
Ho capito che le persone speciali non ci lasciano mai anche quando ci lasciano. E che si può parlare con loro anche senza di loro.
Come diceva Shakespeare non si può aspettare di morire per imparare a vivere. Quindi, sarebbe bello e utile vivere prima di smettere di farlo.

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