Il tre aprile è diventato tre maggio. Sempre di un tre si tratta, ma ben trenta giorni più avanti.
Speravamo di transitare alla fase due, quella della convivenza con il virus. Ce lo avevano preannunciato, fatto pregustare, instillato nelle nostre menti e nei nostri cuori con la solita comunicazione schizofrenogena: oggi sì, domani forse, poi nuovamente si e poi no. E poi, dopodomani, chissà.
Saremmo stati bravi, attenti e anche prudenti. Avremmo evitato la Pasquetta, il venticinque aprile e anche il primo maggio, ma saremmo pian piano tornati alle nostre vite. Al nostro lavoro, passando qualche volta anche dai nostri genitori anziani. Con prudenza e coscienza, anche e soprattutto con loro.
E invece: tutto chiuso sino al tre maggio, con l’aggravante che nulla è chiaro, che i contagi seguono un’onda anomala tra deflessione e immotivate e ansiogene impennate, facendoci fare dei giri immensi su giostre nevrotiche e incerte dalle quali sembra impossibile scendere. Attendavamo con ansia il dopo coronavirus, e invece siamo ancora in una dimensione di prolungato adesso.
Un tempo sospeso tra ieri e domani che ci ammanetta a un infinito oggi.
Abbiamo fatto crostate, dolci di vario tipo, finanche il pane. Abbiamo fatto giardinaggio e capanne, scritto libri e lavorato a maglia, abbiamo accudito più di sempre i nostri figli, amori e cani. Ci siamo guardati dentro e altrove. Abbiamo riflettuto, immobili.
Abbiamo vissuto un tempo immobile, dilatato, contratto, impaziente, scalpitante. Di introspezione e depressione. Di lavoro da casa e di over dose di smartphone. Abbiamo accerezzato i nostri cari con le video chiamate e obbligato una nonna a vedere una nipote via Skype. Il luogo dell’altrove.
Abbiamo brindato online, amato e sofferto, sempre dietro un monitor. Abbiamo corso in strada e poi sul posto, ma adesso rivogliamo la nostra vita.
Quelle giornate fatte di stress e riposo, dell’andare e del rincasare. Di altri esseri umani e della nostra solitudine casalinga. Dei sabati, delle domeniche e dei lunedì di cui non ci lamenteremo mai più.
Ci va bene la distanza sociale e l’ansia da straniero, le mascherine che non si trovano e che abbiamo imparato a farcele da soli e l’incognita. Ci va bene la spesa di corsa, imbustata nel cofano delle nostre auto e il sentirci dei briganti. Ci va bene anche andare in banca previo appuntamento e le autocertificazioni mutanti. Ci vanno bene i pensieri ossessivi e le mani screpolate. Ci vanno bene anche i guanti e la diffidenza.
Ma il tre maggio ci sembra davvero troppo.
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