Cara Dottoressa,
io sono la moglie morta. Colei che lo ha abbandonato. Mi sono gravemente ammalata anni addietro – sa di quei mai incurabili, strazianti che rovinano la vita anche di chi rimane? -, e lui, pover’uomo, mi ha accudita, mi ha amata sino alla fine dei miei giorni, e mi ha seppellita vicino casa, così mi porta i fiori ogni domenica della sua vita e della mia non vita.
E invece, cara dottoressa e cari tutti, io sono la moglie: viva e vegeta. Colei che non solo non si è mai ammalata, non è stata mai accudita ma ha sempre accudito, e non è nemmeno deceduta.
La domenica, in realtà, mi porta i dolci e non i fiori, e li porta a tutta sua (e mia) famiglia e non a una lapide.
Scopro di essere la moglie morta per sbaglio, una domenica di questo strano autunno di semilibertà. Siamo tutti chiusi in casa, più o meno nervosi e preoccupati. Due figli adolescenti in età da tempesta ormonale, una madre anziana in un’altra casa, il lavoro da casa. Esattamente come tutti non stiamo granché bene, ci sentiamo abbrutiti e spazientiti.
Mio marito, che mai aveva dato segni di squilibrio o di inquietudine, decide di portare fuori il cane, e dimentica suo malgrado il cellulare in casa. Questo cellulare sembrava essere animato da una vita a sé stante: lampeggiava, suonava, reclamava attenzioni e cure. Veniva rapito da bagliori improvvisi e incessanti. Insomma, non stava un attimo zitto.
I cellulari moderni, pur aprendosi con lo sguardo del legittimo prioritario, regalano la possibilità di leggere la prima parte del messaggio, anche da chiusi. E visto che i messaggi arrivavano a raffica, come una tempesta improvvisa, ho avuto la possibilità di capirne e carpirne il contenuto.
Lei, la sua giovane e apprensiva amante, era in pena per lui, il mio diversamente giovane e bugiardo marito.
Era domenica, il giorno della sua presunta visita al cimitero, delle sue lacrime sulla mia tomba, e lei era in pena per lui.
Io che non sono una donna dalla britannica cordialità decido di scendere in campo, di chiedere spiegazioni, di sapere.
Ecco che lui, dal cuore infranto, non per la mia perdita ma per la futura perdita della giovane amante, si racconta. Confessa. Candidamente mi racconta di avere adoperato il triste sipario della sofferenza per non sembrare un fedifrago.
Mi trafigge ancora una volta: da viva, regalandomi l’irreparabile morte del cuore.
La storia di Germana, le mie parole