Social e mostruosità relazionali

C’è chi scrive su Facebook i fatti propri e per di più con dovizia di particolari facendomi bloccare la pagina tutte le volte. Chi confonde la bacheca altrui per la riservatezza di uno studio medico o le pagine di una cartella clinica.
Chi prende un numero e scrive su whatsapp a un perfetto sconosciuto, e noncurante della non risposta incalza, prosegue indisturbato, allega faccine e richieste impertinenti e inadeguate per una chat.
E chi, sempre noncurante della poca riservatezza di un social, pubblica di tutto e di più del proprio privato mettendo a disagio il ricevente di così tante confessioni.
E chi confonde il social per un’intervista clinica. Chiede informazioni, e ancora diagnosi, notizie, terapie farmacologiche e tanto altro. Esige risposte chiare ed esaustive, e le esige subito.
E quando osi cancellare i messaggi per tutelare loro e te stessa, vieni tacciata di essere una gran maleducata, nonché arrogante, e per finire, del tutto noncurante del disagio (pubblico) altrui.
Ricapitoliamo: l’interazione con i lettori è diversa, e per di più molto diversa, da quella che si ha con i pazienti, non perché i secondi sono paganti e i primi no, ma perché i secondi vogliono essere curati davvero nella riservatezza di un ambiente protetto deputato alla cura e i primi no.
La parcella, tanto deplorevole ma assolutamente necessaria, è il pagamento della cura erogata, e in ambito psichico sancisce il confine tra il legame amicale da vivere al bar o a cena e il percorso di cura.
Serve per evitare confusione e fusione di ruoli, mansioni, confessioni. La cura non è data da un saccheggio online e da un’estorsione di notizie prese qua e là, ma da un rapporto unico tra il clinico e il paziente, che non è l’amico su Facebook o l’amico di chat o di penna, ma è colui che sceglie di fidarsi e affidarsi per avviare un cambiamento, una riparazione di un legame ferito, per risolvere un disagio del corpo e del cuore.

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