Silvia Romano e la gogna mediatica

Aveva 23 anni. Si era appena laureata. Con fare trasgressivo, non provava quell’attrazione irrefrenabile per discoteche e aperitivi, così decide di sentirsi utile nell’essere utile. Abbraccia la strada del volontariato: scalda il cuore e si fa scaldare il cuore.
La sua tesi di laurea con un non so che di profetico anticipava il suo destino; affrontava il tema della tratta degli esseri umani.
Va in Africa, viene rapita, venduta e sequestrata per ben diciotto mesi, cinquecento quarantasette giorni. Dei suoi mesi di reclusione non sappiamo nulla, il suo diario di bordo con le sue riflessioni e paure è stato sequestrato prima del suo rilascio.
Atterra in Italia avvolta o nascosta da un abito verde che accende gli animi di chi in diretta assiste al suo atterraggio. Viene aggredita senza pietà, e nessuno le lascia spazio e tempo per l’elaborazione dell’accaduto e del lutto.
Viene travolta e stravolta dalle maldicenze. Deve difendersi, proteggersi, proteggere la sua famiglia dal mondo esterno e da sé stessa. È talmente intenta a schivare l’odio e le emozioni altrui che non può concentrarsi sulle sue.
Viene offerta come pacco dono alla gogna mediatica, posta inerme e inerte sul banco degli imputati.
Cambiano gli attori protagonisti ma non l’opinione pubblica e il sentire comune, e come sempre le vittime diventano aguzzini.
Le donne abusate se la sono cercata, le volontarie potevano starsene a casa loro, le sequestratate potevano lamentarsi almeno un po’ o sfoggiare qualche livido o danno permanente; e come sempre in Italia la vittima non viene protetta ma aggredita e si trasforma in carnefice.
Carnefice per non essersi disperata, per non essere stata stuprata, per non avere dichiarato al mondo che li, in quel luogo di carcerazione e sofferenza, c’era il male, il diavolo, la fame e la sete. Colpevole per non avere aderito all’immaginario collettivo che era stato organizzato per lei, per loro, che con fare manicheo divide il bene dal male, il bianco dal nero, il cattolico dal musulmano.
La gogna mediatica scatta senza pietà, i messaggi degli odiatori della rete – perché ormai tutti hanno diritto alla parola che sporca e che uccide, senza essere puniti o identificati – la inondano, le bottiglie minatorie la raggiungo alla finestra di casa, i giornalisti la pedinano, e insieme a lei la sua famiglia.
Ogni azione contro Silvia è intrisa di sfumature persecutorie dalla ferocia accattivante che contagia tutti. La slavina di fango è ormai inarrestabile, e come accade sempre nel web, l’onda anomala dell’odio straripa gli argini del buon senso e della decenza.
Quando un essere umano provvisto di psiche e corpo, coscienza e inconscio, viene rapito e sequestrato, instaura, che gli piaccia o meno, un rapporto esclusivo e preferenziale con il suo aguzzino.
(Questo, in realtà, accade anche in amore, in casa, con i narcisisti, con i manipolatori, non per forza in casi di sequestri e di conversioni).
Il neo legame rappresenta l’unica finestra sul mondo. Soddisfa i sogni e anche i bisogni, soprattutto di base. Senza quel legame, Silvia non avrebbe mangiato e respirato, e non sarebbe sopravvissuta.
Grazie alle “strategie di vittimizzazione”, il persecutore, l’aggressore o il sequestratore diventa l’oggetto del desiderio della vittima. L’universo mentale della vittima viene colonizzato: pensiero dopo pensiero, emozione dopo emozione, paura dopo paura, pasto dopo pasto, alba dopo tramonto.
La donna vittima viene spodestata dalla sua capacità di analisi della realtà sino a smarrire del tutto la capacità di giudizio e senso critico.
I pensieri contaminati si fondono e confondono con quelli del suo aguzzino. La mente e il cuore vengono consegnati al suo aggressore per portare in salvo la vita e strapparla da un’angoscia insopportabile.
Si chiama sindrome di Stoccolma, e nessuno ne è immune. Si chiama anche “erotizzazione della sofferenza” e serve per padroneggiare l’angoscia, difende la psiche dal rischio di disgregazione psicotica.
Immagino che anche a Silvia sia accaduta la stessa cosa.
Torniamo a Silvia e al suo sequestro. In questo turbinìo di emozioni contrastanti, rabbia e frustrazione, paura e angoscia si alternano sino a sfociare in un sentimento inedito, apparentemente fuori luogo e dalla difficile decodifica che si chiama empatia. Gratitudine. Affetto. Talvolta amore.
Dentro di me la divisione manichea tra bene e male è chiara.
Continuerò ad amare l’Africa, la beneficienza e il funzionamento psichico, e continuerò a provare disagio e fastidio per gli odiatori anonimi del web responsabili di una slavina di fango inarrestabile e insopportabile.
Ciao Silvia,
ben tornata e scusaci, speriamo che non ti facciamo passare la voglia di essere altruista.

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