Roma, l’autismo e le mascherine

Dopo avere respirato dentro una sciarpa simulando l’utilizzo di una mascherina, atterro in aeroporto. Mi misurano la temperatura, si sincerano che non sia febbrile e infetta, o non febbrile e ugualmente infetta, mi lasciano passare.
Proseguo in direzione uscita e taxi.
Non ho bisogno di sgomitare e di superare per tentare di fare in fretta, la solita calca per accaparrarsi il taxi ha lasciato spazio al nulla cosmico. Mi sento una privilegiata o un’incosciente. Non so bene. Vado in studio. I pazienti sfidano il contagio e mi raggiungono. Lavoriamo bene e ci stringiamo anche la mano. Eccesso di empatia o di imprudenza? Anche in questo caso non ho le idee chiare. Per fortuna nessuno di noi starnutisce, tranne qualche occhio lucido, più per l’emozione che per una febbre in agguato. Tutto procede per il meglio.
Spero nella compagnia di un cappuccino per la mia pausa pranzo frugale e romana. E sfido il destino, mi siedo al bar rapita dall’incanto di Piazza del Popolo. Continuo a sentirmi un’incosciente, forse dovrei pensare a mia figlia, ai miei cari, ma la fame batte la paura e rimango lì a osservare le poche persone in circolazione.
Roma mi accoglie così: spaventata e fredda. Nonostante il cielo azzurro e assolato, mi sembra suscettibile e sospettosa, non è da lei. Le persone camminano mantenendo una distanza di sicurezza da un ipotetico paziente zero, uno, due. Insomma, da ogni possibile fonte di contagio: reale o immaginaria. La paura serpeggia tra la gente; si esprime con sguardi in cagnesco sprovvisti di empatia e ovviamente di simpatia.
Le mascherine oscurano tutto: naso, bocca e gran parte del viso, facendo aumentare a dismisura l’ansia.
Termino di fare studio e spero di ripetere i miei soliti rituali rilassanti prima di dirigermi nuovamente e di corsa in aeroporto: passeggiata in Piazza di Spagna, sosta dal mio venditore di fiducia di caldarroste (che sia Natale o agosto, lui è sempre lì, con le sue super castagne, presumo anabolizzante). E invece, anche il venditore-ambulante è assente, al suo posto c’è un angolo vuoto che mi lascia sprovvista del mio rituale offattivo e gustativo.
Se fossi stata a Milano avrei avuto l’impressione di poter incontrare Don Abbondio e Don Rodrigo con i suoi bravi, sentendomi più a rischio di colera che di coronavirus.
Per fortuna sono a Roma, ben lontana da quel ramo del lago di Como, il cui ricordo oggi genera più ansia che meraviglia.

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