Cambiano le parole e speriamo che cambino anche i contenuti. Pare che da qui a breve non si utilizzerà più la parola pandemico ma si utilizzerà la parola endemico.
Un virus mostruoso che ha devastato le nostre vite verrà felicemente declassato a stagionale raffreddore.
Non sto qui a sindacare se sarà un bene o un male o se continuerà a mietere vittime indisturbato mentre si chiamerà in altro modo, ma cercherò di analizzare il potere enorme che hanno le parole sul sentire e di conseguenza sul vivere.
Da innamorata cronica delle parole sono fermamente convinta che oltre alla conta drammatica dei morti e dei feriti, pensarci e quindi percepirci in una condizione meno drammatica e mortale può renderci un po’ più sereni e farci sentire ancora quel brivido che si chiama voglia di vivere che abbiamo ormai dimenticato.
I telegiornali ci hanno tenuto compagnia e mentre ci aggiornavano ci prosciugavano la vita.
Non siamo più in grado di difenderci dall’angoscia, non abbiamo più nessuno spazio interno per ascoltare quelle parole intrise di morte e di preoccupazione.
Quel fiume straripante di parole che fanno ammalare sembrano essere diventate materia in decomposizione che nutre la paura e i disturbi dell’umore. Le nostre orecchie non vogliono più sentire, i nostri occhi non sono più finestre: guardano ma non vedono più, si sono assuefatti al male.
Quando ascoltiamo dati come duecento morti, tremila contagiati, è così via, sono diventati per noi solo numeri, tristemente numeri, del tutto scorporati dalle storie delle persone, delle famiglie che hanno subito i contagi e le perdite. Da chi ha abbassato la saracinesca del suo ristorante o ha dovuto chiudere la sua piccola azienda.
Siamo stati prigionieri della pandemia per un tempo infinito.
In alcuni momenti delle nostre giornate la vista si abbassava, abbiamo vissuto nella nebbia.
Tutto diventava sfocato e pericoloso, soprattutto l’incontro con un altro essere umano come noi.
Abbiamo avuto paura della morte, del contagio, dell’altro, ma anche della vita, di come condurla, nel tentativo di non infettarci e non infettare i nostri cari. Siamo diventati monadi, senza porte e senza finestre.
Ci siamo sbranati l’un l’altro, siamo stati divisi in buoni e cattivi, in vaccinati e no vax, in coloro che hanno due dosi o tre e chi non ne ha nemmeno una.
Se mi fermo un attimo a pensare ho il ricordo di un periodo lungo e corto che non riesco più a collocare nel tempo. A volte penso che domani mi sveglio e mi accorgo che è stato solo un brutto sogno.
Ripenso alla mia ultima giornata lavorativa in studio a Roma, prima che lo traferissi a Milano, quando per paura della pandemia che ancora non si chiamava pandemia ma epidemia, era sparito il mio venditore di castagne preferito. Quel luogo a me caro, in piazza si Spagna, che negli anni si era fatto rituale, ristoro, abitudine cara.
Adesso sono trascorsi ben due anni, e l’epidemia diventa pandemia verrà declassata a endemia.
La Treccani definisce l’endemia così:
“Costante permanenza, in un determinato territorio, di una malattia che tende a presentarsi sporadicamente o a piccoli focolai e con una incidenza relativamente uniforme, in ciò differenziandosi dall’epidemia”.
Credo di aver capito che la convivenza sarà un destino ineludibile, per adesso. Mi piace immaginare le mie tre dosi di vaccino come tre strati di armatura e le parole come velluti d’oro e di fuoco.
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