La pandemia da Covid ha portato con sé morti e feriti. Ha derubricato dalle nostre vite tatto e contatto. Ci ha reso soli e fragili; e cosa ben più grave, ha impedito agli ammalati di morire mano nella mano con le perone a loro care. E ai familiari di poter vivere quegli attimi preziosi, anzi preziosissimi, durante i quali a volte ci sono le parole mai dette, altre i silenzi, ed altre gli abbracci.
Quando mio padre è stato congedato dall’ospedale perché non c’era più niente da fare, lo abbiamo riportato a casa. La sua e la nostra casa. Quel luogo fatto di ricordi e odori che ci aveva contenuti e che aveva fatto da cornice a tanti compleanni, anniversari, domeniche e tanti altri istanti delle nostre vite. Momenti che in quei giorni bui si affacciavano alla nostra mente e al nostro cuore per farci sentire meno soli. Gli ultimi giorni della vita di mio padre, e della nostra con lui, stavano avvenendo nel suo mondo. Non c’erano estranei, odori e rumori respingenti o impertinenti, non c’era nulla che non fosse casa e famiglia.
Le mie mani si davano il turno con quelle di mia madre e di mia sorella: stavano lì, incollate e intrecciate alle sue. Facevano da Caronte alle sue, nostre, emozioni e paure.
Non lo lasciavo da solo un istante. Seduta al suo capezzale gli parlavo e gli dicevo quanto ero stata fortunata ad averlo avuto come papà, lo ringraziavo, gli raccontavo, mi facevo raccontare in silenzio, a un passo dalla sua morte e dalla mia del cuore. Io parlavo e lui ascoltava, lui parlava in silenzio e io ascoltavo. Lacrime e parole, in fila indiana, in direzione trapasso.
La morte fa meno paura se si ha la possibilità di stare accanto a chi si ama.
L’ultimo saluto è un diritto sacrosanto, è un attimo prezioso che fa fare pace con il non detto o non fatto, che placa i demoni interni. Che accompagna: chi va via e chi resta.
Anche al tempo del Covid.
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