Oggi è uno di quei giorni. Prepotenti. Irruenti. Destabilizzanti. Uno di quei giorni in cui non puoi farne a meno, più degli altri, più di sempre. E, in fondo, non sai nemmeno il perché. Chi soffre di quella malattia incurabile chiamata scrittura, conosce una sola cura: scrivere. Quando non può farlo i sintomi si acuiscono, diventano insistenti, resistenti, bussano prepotentemente dall’interno, dalle viscere, dall’inconscio. Esigono di diventare luce, parola scritta, riga, pagina.
L’ammalato non può fare a meno di assecondarli, perché quando non lo fa, esattamente come un tossicodipendente, sta male, diventa nervoso, scontroso, irrequieto, bisognoso. Sì, bisognoso della sua dose quotidiana di parole scritte.
Anche quando sei stanco, fermo a un semaforo, tra lo scaffale di surgelati e uno di ortaggi, non puoi proseguire con quello che avevi in mente di fare, ma devi subito metterti a scrivere sotto l’impulso dell’impellenza.
Sfoderi il cellulare come se fosse una sciabola e inizi ad avvertire i primi sintomi di benessere. Ti plachi. Ti illumini. Appare la tastiera e il foglio bianco. Il mondo esterno sparisce, quello interno si dilata.
Il frastuono si fa silenzio. I pensieri galoppano e si intrecciano alle emozioni. Quello che pesa sul cuore, pian piano, diventa parola scritta. Poi leggi, rileggi, assapori, ti irriti, ti emozioni, ti plachi. Tagli un po’, levighi, rimuovi. Togli un po’ troppo di te, ma poi lo rimetti, perché senza cuore la scrittura si schianta sul muro della realtà. Non emoziona. Non ti emoziona.
La scrittura è magia, è riparazione, è cicatrizzazione. È la porta d’ingresso verso mondi nuovi, inesplorati, a volte nati grazie a quelle parole che si fanno ponte.
Alla fine ringrazi la tua malattia, la saluti e le dai appuntamento a domani, sperando che di notte ti lasci dormire in santa pace.

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