Questo strano e nefasto anno ci ha lasciato in eredità tante parole nuove, altre riesumate come dei cimeli e altre ancora importare da altre lingue. Parole pandemiche. Alcune parole sono state prese in prestito dall’inglese, come se un suono diverso le rendesse meno ansiogene o ci regalasse l’illusoria sensazione di essere meno in pericolo. Rimane però l’augurio di restituirgliele a breve.
Altre parole desuete, tirate giù dalla soffitta dei più impolverati ricordi, per darci un certo tono, come se un lessico snob o desueto fosse meno doloroso o preoccupante.
Altre parole sono state inventate per l’occasione. E che occasione!
Ho cercato di fare un riassunto per ricordarmi di non utilizzarle, spero, mai più.
Lookdown, parola odiosa che in maniera internazionale significa reclusione, blocco, isolamento.
Con questa parola (parolaccia) si racconta il blocco di tutte le attività emotive e produttive, e di tutti gli spostamenti non necessari al fine di contenere il diffondersi del Coronavirus.
Congiunti. E chi lo avrebbe detto mai che per sopravvivere alla pandemia e alla solitudine bisognava essere congiunti di qualcun altro? I congiunti sono stati i privilegiati dei dpcm, coloro che potevano spostarsi e anche incontrarsi. Senza il titolo del congiunto, il single, il separato, il felicemente solo, il diversamente orientato, il separando o il separato in casa non poteva andare da nessuna parte.
Distanziamento sociale. Quel luogo nuovo, nato con la pandemia, che ci ha resi delle monadi: senza porte né finestre. A debita distanza da ogni altro essere umano, abitanti di una gigantesca bolla prossemica. Quel metro di sicurezza salva vita che ci ha protetti, forse, da goccioline impertinenti, strette di mano come se fossero Caronte per il virus, e incontri ravvicinati del terzo tipo.
Dpcm. Un documento complicatissimo e mutante che regolamentava i nostri spostamenti, le nostre vite, i nostri amori e lavori. Che ci consegnava alla miseria o alla malattia, brandito come se fosse un grimaldello emotivo per farci ricongiungere con chi amiamo o vogliamo bene, o negarci la possibilità di un incontro.
Autocertificazione. Di scolastica memoria rappresentava, ma anch’essa era mutante, il lasciapassare per qualche possibile ora d’aria, per le passeggiate olfattive come quelle dei cani, per la possibilità o necessità di poter fare la spesa o fare visita a un anziano genitore, sino alla massima trasgressione: incontrare un amore non congiunto.
Smart Working. Anche questa parola è stata presa in prestito dall’inglese, ma è a dir poco orribile. La possibilità o sciagura di lavorare da casa. Quel luogo da cui esci in fretta al mattino, ben truccata, pettinata e abbigliata per recarti in un luogo consono alla tua nuova identità: quella lavorativa, ben distinta da quella casalinga.
Il famigerato Smart Working, per chi può farlo, ci ha rinchiusi in casa insieme ai figli, ai congiunti, ai pazienti, ai datori di lavoro. In tuta e di pessimo umore.
Io sto a casa. Andrà tutto bene. Due frasi recitate sino allo sfinimento. Il primo mantra linguistico rappresentava un condizionamento operante di Pavloviana memoria: più lo dici e più si avvera, finché si avvera anche se non lo dici. Il secondo, invece, incarnava l’antidoto all’angoscia, il balsamo per le ferite del cuore.
Mascherine. Di carta, di stoffa, mezzo finocchio sul viso quando erano introvabili come una pepita preziosa. Fatte in casa, abusive, contraffatte, illegali, contrabbandate, griffate. Caldamente consigliate, opzionali, solo in luoghi pubblici, solo in compagnia, all’aperto, sempre.
Bonus. Ce n’era uno per ogni cosa e per ogni necessità. Per acquistare una bici e non inquinare. Per essere trasgressivi e imprudenti e acquistare un bel monopattino. Per fare una vacanza ed essere anche rimborsati. Tutti complessi, dalla difficile acquisizione, la cui bravura digitale era da relegare alla presenza nelle nostre vite di un commercialista, come se fosse il genio della lampada di Aladino: da sfregare al bisogno.
Tampone e tamponato. Il primo è il lasciapassare per qualche giorno, settimana o mese di serenità. Il secondo un’orribile storpiatura di un participio passato usato in modo abusivo e illegale per nuocere gravemente alle orecchie di chi lo ascolta.
Delivery. Quando si cucinava in casa, e si aveva il piacere di farlo, non c’era l’asporto e la consegna a domicilio, perlomeno non con questa urgenza e con questo bisogno di acquistare il cibo che consola. Adesso dal Covid in poi c’è il delivery: tante pietanze dentro un’app, dal tuo ristorante preferito a casa tua, senza incontri, scambi o entrambi.
Ne avrò scordate alcune, ma la rimozione e la negazione sono i miei due meccanismi di difesa della psiche preferiti.
Così, concludo con vaccino e speranza. Il primo è la vera luce in fondo al tunnel di quest’anno misterioso e mostruoso; anche qui c’è chi ci crede, chi lo considera un’arma impropria, chi non lo negherebbe a nessun caro e chi lo inoculerebbe al proprio congiunto, non si sa mai. Con la seconda e ultima parola, speranza, non mi riferisco al ministro, ma a quel sentimento flebile che non si spegne mai, che si affievolisce ma riparte, di cui mai come adesso, abbiamo un gran bisogno per essere coraggiosi e prudenti.

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