Il tempo è un dono. Quando possiamo condividerlo con chi amiamo o chi vogliamo bene si moltiplica per intensità ma non per durata; così vola via in un battibaleno e dura per sempre.
Al tempo del coronavirus, la condivisione è stata derubricata dalle nostre vite, unitamente ai baci, agli abbracci, ai nonni. Anzi, più amiamo e più dobbiamo stare a distanza. Il nostro tempo è stato messo in pausa dentro le mura domestiche facendoci diventare tutti degli Hikikomori.
È un tempo strappato – un’appropriazione indebita da parte del virus – insieme alla nostra libertà, per evitare che diventassimo imprudenti e untori di un possibile contagio.
Da una settimana, a virus parzialmente imbavagliato (forse), il nostro tempo ci è stato finalmente restituito, e noi ne abbiamo fatto incetta. Senza più pensare a ieri e nemmeno a domani.
La negazione e la rimozione dell’accaduto, due potenti meccanismi di difesa della psiche, hanno duellato con l’esame di realtà; una sordità fulminate ci ha impedito di ascoltare e capire i bollettini serali del telegiornale, il bisogno di normalità e di vita ha preso il sopravvento sulla prudenza.
Il tempo non è infinito, per nessuno, bisognerebbe averne cura e rispetto. Non andrebbe consumato con ingordigia, tra egoismo e narcisismo, aperitivi e una buona dose di incoscienza, mettendo a repentaglio la vita altrui, unitamente alla nostra.
In realtà, è tutta colpa di Freud e della malinconia. Quell’emozione oscura che fa capolino nelle nostre giornate, tra gioia e noia.
Quel male di vivere che tentiamo in ogni modo di fare diventare altro da noi. Ci stordiamo, ci impegnamo, deragliamo, abbiamo difficoltà a stare in sua compagnia.
La malinconia, in realtà, non potrebbe esistere senza memoria. Quello scrigno segreto che ci ricorda che ci manca quel qualcosa che un tempo avevamo, che ci faceva sentire bene, ma che adesso non abbiamo più.
La malinconia da quarantena, però, non è una patologia da curare o un virus da debellare: è un passaggio segreto, una risorsa, un dolore-regalo. La tristezza, se sappiamo ascoltarla, ci regala fonti incredibili di ispirazione e un tuffo tra i fondali della nostra interiorità, che in situazioni di calma piatta non avremmo mai fatto.
La malinconia non è depressione: è uno stato d’animo che ci indica il cammino, esattamente come una bussola. Non è patologia: non va curata, non va sedata, non va demonizzata. La malinconia che appartiene a questa fase due che diventerà tre, e che ci auguriamo non torni ad essere uno, può diventare il luogo dell’ascolto, dello scambio e del l’essenziale, delle parole e dei silenzi, non delle obbligatorie scorribande in strada, per di più senza mascherine.
Siamo diventati una comunità di solitudini, o meglio di egoismi mascherati (non mi riferisco esclusivamente alla mascherina chirurgica).
Dopo quello che abbiamo vissuto e che vivremo ancora, un aperitivo o un’incoscienza non è più accettabile perché mette a repentaglio il tempo di tutti noi.
La sofferenza passa, la rimozione ci aiuta a non pensare, ma non passa l’aver sofferto. Perseverare nella leggerezza, negli aperitivi imprudenti e nella fretta, diventa la strada più rapida per precipitare tutti in un pozzo. Questa volta senza fondo.
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