Era una serata estiva. Una di quelle come tante, tutte uguali a loro stesse. Una serata chiassosa che comincia con il famigerato aperitivo e si conclude con l’obbligatoria anguria ghiacciata e le risate appiccicate al viso come una smorfia contratta.
Una di quelle. Tremenda. Da subire e non vivere. Di quelle serate che raccontano la stanchezza della giornata appena trascorsa e che è ancora lì con te, a quel tavolo, insieme alle tue occhiaie e alla pelle bruciata dal sole.
Di quelle serate durante le quali mentre tenti di cenare affamata e provata, schivi un selfie dell’orrore per poi sentirti dire che sei asociale.
C’era la solita confusione, un gran vociare, fronti imperlate di sudore e profumi sin troppo violenti per le mie suscettibili narici.
Tutte quelle voci urlate, poco modulate, che non lasciano intravedere pensieri a monte e nemmeno a valle.
Timidamente si affaccia qualche pensiero profondo che non si addice alla tavolata e anche qualche emozione, povera emozione, di quelle che sgomitano invano per trovare uno spazio d’ascolto.
In quelle tavolate estive a me capita di sentirmi sola, molto sola. Mi intristisco, mi annoio, mi scollo dalla realtà, vado altrove. Viaggio da ferma per sopravvivere.
In quell’eccesso di presenze e di persone mi sento invasa, depredata, contagiata da così tanta superficialità e brusio.
L’altra sera, su un’isola incantata che ad agosto è meno incantata e molto affollata, ho fatto un incontro.
Ero seduta a tavola in religiosa attesa della mia cena, quando al mio stesso tavolo ha preso posto la sua assenza.
Si è seduta di fronte a me e abbiamo iniziato a dialogare, come si fa in un tavolo per due.
Su quell’isola, in quel ristorante, aveva preso posto la sua assenza, proprio di fonte a me, e insieme a lei le altre assenze della mia vita.
Abbiamo parlato di mia figlia e della sua specialistica, di suo nipote, della mamma e di mia sorella. Ma lui sapeva già tutto.
In quella sedia vuota ma piena di lui c’era seduto mio padre.
In quella sera d’estate, su quell’isola, c’era mio padre. Lui che amava così tanto il mare.
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2 Commenti. Nuovo commento
Dott.ssa,
mi sono commossa a leggerla.
Mi ritrovo nel suo breve racconto. L’asociale, sono io. Me lo sento dire da quando avevo 14 anni. Ed ora, a 54, sono io la prima a considerarmi tale. A dirlo io, prima che me lo dicano gli altri. Ma per me, oggi essere asociali è un complimento e non più un’offesa.
E anche io, spesso, perché mi ritaglio molto tempo per me stessa, in solitudine parlo e rido con chi non è più con me. In particolare con mia nonna materna.
Ma anche con quella Signora anziana conosciuta da ragazza all’ospizio o quella donna malata terminale incontrata sul treno.
Presenze che amo. E la cui voce non potrei riuscire a sentire, tra i rumori chiassosi dei luoghi troppo affollati.
È vero, le anime affini si scelgono.
Buona vita. B
Cara B,
grazie per il Suo commento e per le belle parole. Anche io amo le pecore nere e le persone definite asociali.
Un caro saluto a Sua nonna e uno a Lei.