C’erano più sogni che abitanti nel piccolo paesino in cui Maria era nata, cresciuta, per poco, troppo poco tempo, e poi morta.
La cintura del suo accappatoio avrebbe dovuto cingerle la vita, e invece gliel’ha tolta: cindendole il collo sino alla morte.
Aveva 12 anni, soltanto dodici anni, una vita in pausa, e più paure e incognite che passato.
L’unica finestra sul mondo era rappresentata dai social, che dalla pandemia in poi erano diventati l’unico mondo possibile.
Maria aveva smesso di sognare e anche di desiderare. Senza scuola, chiusa in casa e senza amici – sola dentro una chat – non aveva più concimato e nemmeno coltivato la speranza di abitare il mondo, in attesa che diventasse migliore.
Era piccola, sin troppo piccola per morire, a lei doveva essere regalato il futuro
La sua adolescenza inizia in anticipo e in concomitanza con la pandemia: chiusa dentro il suo mondo insieme ai suoi demoni e ai suoi turbamenti del cuore e del corpo.
Un adolescente per definizione non ha pazienza, non è tollerante e non sa aspettare. Ha fretta di crescere, ha fame di tutto: di esperienza, dell’altro, di sé stesso della nell’altro, di spostare i limiti, di guai.
Non può stare chiuso in casa, e non per un periodo così prolungato.
I media li chiamano generazione Covid, definizione a dir poco aberrante perché conferisce all’adolescente la possibilità di identificarsi nella diagnosi infausta che gli è stata appiccicata addosso.
Nessuno di noi è quello che gli accade, ma può cambiare il corso degli eventi, anche delle pandemie. Sempre.

Fonte: La Stampa

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