Il punto non si mette, dice mia figlia. Non si mette quando scrivi in chat. Non si mette su WhatsApp. Il punto non si mette.
Il punto è l’incarnazione di un affronto. Rappresenta il voler chiudere in maniera aggressiva una comunicazione.
Il punto diventa lapidario, offensivo, punitivo. Il punto spaventa e minaccia. Ricorda una mannaia. Il punto non si mette.
Quando scrivo a lei devo calibrare la punteggiatura perché se metto un punto apriti cielo, si sente minacciata dal mio punto; quindi sto molto attenta ed evito di disseminare punti.
Una comunicazione lastricata di prudenza e di morbide virgole, se proprio devo.
Eppure, durante i miei faticosissimi anni di liceo classico la punteggiatura era sacra.
C’erano le virgole, le virgolette, i puntini di sospensione, il punto e virgola: più forte della virgola e meno forte del punto.
I due punti, che magia, i miei preferiti: austeri, un po’ datati, ma assolutamente indispensabili.
Hanno il grande potere di organizzare un discorso nel discorso, collegando proposizioni e pensieri,
separano elementi con una pausa meno incisiva ma elegantemente eloquente.
Seguono i punti esclamativi e gli interrogativi, affascinanti anche loro, se messi con garbo.
E poi, dulcis in fundo, c’è il punto.
Ha una determinazione unica.
Chiude un pensiero, una frase, un panegirico mentale, di chi scrive e di chi legge. Vogliamo poi parlare del suo spazio vuoto che obbligatoriamente lo segue?
Un incanto, uno spazio vuoto.
Una pausa obbligata e obbligatoria. Segue la lettera maiuscola quando si riprende a scrivere; a me ricorda il rimettersi in piedi, il tirare su la testa e le spalle dopo una fatica o una caduta.
A me il punto con le sue metafore, fini e nuovi inizi, piace e anche tanto.
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