I luoghi dell’infanzia non ci lasciano con la stessa facilità con cui noi lasciamo loro. Si affezionano, vengono a trovarci di tanto in tanto, ci tengono stretti a loro e, spesso, non riescono a fare a meno di noi. E noi di loro. Per fortuna o purtroppo.
In realtà, l’infanzia non finisce mai del tutto, fa dei giri immensi e poi ritorna. Come i sintomi e come gli amori che non finiscono mai. Abbiamo la sensazione che il tempo diluisca l’infanzia, che la avvolga con un mantello invisibile, che la silenzi e anche depotenzi.
Questo, in realtà, non accade.
L’infanzia, soprattutto quella irrisolta e dolente, continua a mietere vittime e a fare a fette le certezze che l’esperienza aggiunge agli anni che passano.
Per evitare di far detonare la bomba infanzia-infelice ci vuole tempo e pazienza. Bisogna trattarla con cura. Osservarla se sanguina, non mettere delle bende troppo strette e invisibili per arginare il rischio necrosi. Non tacitarla con farmaci che trasformano le ferite in buonumore e gli incubi in letargia vuota. Non è consigliabile annegare l’infanzia in quel turbinio chiamato vita e lasciarla a un destino di oblio e invisibilità. Lei si ribellerà mettendo in atto un’azione di disturbo, un atto rivoluzionario e sovversivo.
Bisogna averne cura, ascoltarla e guardarla negli occhi. Abitare il silenzio, talvolta il vuoto con le sue vertigini. Respirare a pieni polmoni l’abbandono e trasformarlo in energia. Attraversare indomiti le lande della propria solitudine e concimare il deserto emotivo.
“Qui e ora”, dispensato a iosa, rimane una grande bugia. Quando i luoghi dell’infanzia sono ancora dolenti e sofferenti, nessun presente può essere abitato con pienezza e serenità. Venir fuori da quel pantano emozionale chiamato infanzia è possibile e attuabile; basta concedersi il tempo necessario per ripararla. Anche a posteriori.
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