Natale, si sa, è un amplificatore di tutto. Di solitudini esasperate e di quelle mistificate, di infelicità taciute e imbrogli dell’inconscio e della vita affettiva, di matrimoni giunti al capolino e di cuori zoppi che stentano a battere ancora. Le famiglie riunite attorno a una tavola ben imbandita per la notte del ventiquattro sono così costituite: chi si vuole bene davvero e non vede l’ora di ricongiungersi, chi non si sopporta e soffre le ricongiunzioni forzate e i parenti serpenti che non vedono l’ora di stare tutti insieme per parlar male dell’uno o dell’altro, le famiglie allargate e quelle distrutte e falsamente ricostruite.
Poi, come in tutte le famiglie che si rispettino, ci sono i figli sgangherati e i figli delle viscere. I primi sono solitamente le pecore nere: coloro che per anni hanno faticato tanto per diventare quello che finalmente sono e hanno litigato con il mondo per l’accettazione della loro meravigliosa diversità. Solitamente sono sensibili, un po’ scorticati dalla vita, forti e deboli, ma consapevoli.
I secondi, i figli delle viscere, sono i prediletti, i cocchi di mamma e papà. Coloro che sono stati sempre amati, rispettati e protetti, difesi oltre l’indifendibile, che sono cresciuti senza mai crescere davvero.
Solitamente sono rigidi, un po’ perseverativi, poco inclini all’ascolto del cuore e scarsamente consapevoli. Insomma, emotivamente immaturi.
Il Natale con le sue soste obbligate ha la pessima abitudine di riunire tutti e di ricordare ad ognuno il proprio valore e la propria ferita primaria.
Ecco perché c’è chi il Natale lo ama e chi lo odia e scappa via.
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