Durante una chiacchierata affettuosa ed empatica, una mia cara amica mi partecipa, candidamente, di volere trasformare il fidanzato in marito numero due.
Donna intelligente, felicemente separata e professionista felice, madre di tre figli universitari, incontra nel suo cammino un uomo di pari requisiti psichici e si innamora.
Iniziano, così, a camminare l’uno accanto all’altra.
L’amore, si sa, muove le montagne e stana dall’armadio dei tabù resistenze e buon senso.
Il desiderio, poi, ciliegina sulla torta, azzera quel minimo di esame di realtà rimasto, traferendo la coppia di amanti nella terra dell’altrove.
Un luogo magico, alchemico, dove tutto ha un sapore nuovo ed un colore mai visto prima, e dove l’uno non basta più a se stesso senza l’altro.
Terra, però, pericolosamente a termine.
Quando il desiderio di oceanica fusione occupa tutte le stanze della vita degli innamorati – della mia amica in questo caso -,entrano in gioco i clinici, le mamme o le amiche ad indossare gli scomodi panni del grillo parlante.
L’amore appartiene alla dimensione dell’indefinibile, dell’inenarrabile e dell’inafferrabile, oltre che dimorare nella dimensione più segreta della nostra psiche, ma tenere saldamente i piedi ancorati alla realtà, forse, ogni tanto, protegge l’amore dagli effetti collaterali da over dose d’amore.
Se io fossi lei – o se lei fosse una mia paziente – mi chiederei, anche se in uno stato obnubilato di coscienza, se fosse davvero utile al legame trasformare il fidanzato in compagno, che da lì a breve diventerebbe la brutta copia del marito.
Mi risponderei di no, e propenderei per il difficile nutrimento del sacro fuoco della passione, mantenendo una strategica distanza di sicurezza.
Ma io non sono lei, anche se faccio il tifo per lei.
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