Dire no, non è facile.
Per dirlo ad alta voce e con tono perentorio e convincente, bisogna essere adulti, coraggiosi e risolti.
C’è chi dice ni, nella speranza che all’altro arrivi come un no.
C’è chi dice no, ma viene ugualmente interpretato come un si.
E c’è chi dice no molto dopo, a posteriori, fomentando dubbi, chiacchiericci e confusione sugli eventi.
Gli eventi raccontati sono diversi dagli eventi vissuti, e quelli vissuti sono molto diversi da quelli sperati.
Quasi sempre nella vita.
Nel mare magnum dei comportamenti dalla dubbia interpretazione, intersecati agli inconsci, paure e bisogni dei protagonisti, la giurisprudenza si interseca con la psicologia ogni giorno di più.
Nelle relazioni tra esseri umani – tra animali ed esseri umani, e tra animali ed animali, questo non succede – i fraintendimenti sono all’ordine del giorno, e le strumentalizzazioni anche.
Ci sono prede e predatori – e non dipende dal genere – ci sono prede falsamente prede, predatori potenti ed impuniti, e prede che diventano cadaveri.
Dire no, quando si tratta di relazioni amorose-affettive-lavorative, è complesso perché nelle relazioni ogni comportamento di un protagonista della coppia – amicale, lavorativa, erotica, di conoscenti – dipende da quello dell’altro, modifica ed influenza quello dell’altro, e ne viene modificato a sua volta.
Non stiamo parlando di un furto all’improvviso, in cui vittima e carnefice sono dalla netta e dicotomica scissione: chi ruba e chi viene derubato, ma di dinamiche complesse e sfaccettate.
I si per fare carriera, da che mondo è mondo – non è una giustificazione, ma una constatazione in assenza di giudizio – ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ma, se consenzienti, non possono diventare dei no a posteriori, mossi da sensi di colpa tardivi, conti correnti esigenti, o visibilità mediatica.
Che ben venga il movimento me too, ne avevamo un gran bisogno, speriamo però che non trasformi il buon vecchio corteggiamento in tentativo cronico di abuso.
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