Caro Papa Francesco,
ti hanno scritto in tante, questa mattina vorrei farlo anche io.
Non voglio attaccarti, né difendere le donne, vorrei dirti cosa hanno evocato in me le tue parole.
Ti scrivo, scrivendo a me stessa e a tutte le donne che come me hanno avuto la fortuna di diventare mamme, a coloro che non lo sono diventate, a chi ha dovuto scegliere di non esserlo.
Perché, caro Papa, quando si diventa mamma, non si fa la mamma ma si è una mamma.
Talvolta si diventa mamma anche prima di concepire: nel cuore, nella mente, e dopo, solo dopo, in utero.
Quando la vita, per un motivo o per un altro, si insinua dentro di te – ma tu sei uomo, oltre che Papa, e non hai un utero, quindi puoi solo immaginarlo – ti senti immediatamente responsabile.
Si tratta di una responsabilità silente, pesante come un macigno, che occupa tutte le stanze della tua vita psichica, anche quelle che non pensavi ci fossero.
Da lì a breve esisterà solo lei, la responsabilità per la vita che hai a bordo dentro di te.
Ti senti come se tutte le responsabilità del mondo abitassero in te, nel tuo ventre, nel tuo utero, nella tua anima.
La vita che nasce dentro di te, talvolta, lo fa senza chiederti il permesso.
Per un atto d’amore, di dolore – anche gli stupri generano una vita – o di irresponsabilità.
Non sempre della donna in questione.
La responsabilità ci ammanetta a sé sin da quando siamo ragazzine, ci viene detto come non metterci nei guai, come avere cura della nostra salute e come scegliere l’uomo giusto con cui fare famiglia e mettere al mondo un figlio.
Perché un figlio è una cosa seria, e va protetto ancora prima di essere concepito.
La vita però non sempre segue il corso che ci eravamo stabiliti, talvolta deraglia causandoci molto dolore.
Così può capitare che nel nostro cammino incontriamo un amore malsano, violento, malato.
Uno stupratore o uno stalker, una malformazione genetica, per non parlare poi della mancanza di lavoro, di soldi, e di amore.
Una vita che muore in grembo, che si chiami aborto volontario o terapeutico, non è un assassinio.
Una madre che sopravvive al suo bambino mai nato è una donna che rimane madre anche dopo la morte.
Che non si assolve facilmente per l’accaduto, che si crocifigge sempre e per sempre e che, quando la vita le regalerà un nuovo riscatto con una nuova vita dentro di sé, non scorderà mai l’accaduto.
Non seppellirà il vecchio con il nuovo. Mai.
Sarà una madre che andrà a trovare il figlio mai nato – o ucciso per adoperare le sue parole – in quella parte del suo cuore che rimarrà una lapide, il suo cimitero ambulante.
Se qualcuno muore o viene assassinato, vuol dire che è nato, che è venuto fuori dal niente; anche se ha abitato soltanto il cuore e non le braccia.
Perché, come scriveva Oriana Fallaci, in “Lettera a un bambino mai nato”, non c’è niente peggiore del niente, nemmeno il dolore del dopo.
Anche la morte è un gesto d’amore.
Una mamma
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