Il legame che in alcune circostanze della vita si instaura con i farmaci, soprattutto quelli che si fanno coperta o boa di galleggiamento, può diventare a volte simbiotico, a volte tossico.
Quando in un protocollo terapeutico si introduce la parola magica “al bisogno”, il paziente la trasforma prontamente in un’arma impropria, una sorta di armatura da indossare (per poi farsi possedere) quando il bisogno chiama.
“Qualche goccina al bisogno” e che sarà mai? Peccato che il bisogno abita la terra della soggettività, del bisogno del cuore e del corpo, della notte insonne o del fidanzato estinto, di un dolore che ancora duole, di un figlio che scalpita, di un marito, o una moglie, non desiderante o fedifrago.
“Al bisogno”, così, da preludio a un possibile svezzamento del farmaco, si trasforma in una sorta di autogestione cronica terapeutica.
Lo stesso modus operandi è estendibile ai farmaci pro-erettivi: salva amore e umore.
Viagra e simili imbucati e malcelati in tasche, cruscotti, selle di scooter, cassetti delle calze, per proseguire con pomate dell’amore riposte tra le zucchine e le cipolle nel cassetto più basso del frigorifero.
Per concludere con il drammatico ed errato significato e utilizzo che si dà e fa della pillola del giorno dopo.
Gina (nome di fantasia) mi dice di avere sempre in tasca la prescrizione della pillola del giorno dopo, così quando ha rapporti occasionali non protetti e il partner di turno non è all’altezza del controllo eiaculatorio, lei la assume.
Mi dice inoltre di cambiare comune di volta in volta per avere sempre nuove prescrizioni, per paura che possano segnalare l’acquisto imprudente ai genitori, essendo appena diciassettenne.
I farmaci non vanno demonizzati, ma utilizzati sotto rigida supervisione medica, e quando si tratta di farmaci che agiscono sulla psiche e sulla sessualità il loro utilizzo va sempre, dicasi sempre, associato a un lavoro ben fatto sulla psiche e sulla sessualità, non soltanto sui suoi sintomi, con una voce guida strettamente correlata al cuore del paziente.
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