Scatta l’ora x e si spalancano i balconi e le ugole. Rituali sonori che ricordano un mantra scaccia guai più che un inno alla speranza. Un rituale scaramantico contro un nemico invisibile: il virus.
Perché un male condiviso fa meno paura di un male individuale, solo nostro.
L’inno sonoro, che ricorda un gesto di apparenza più che di appartenenza, si snoda tra le note di Fratelli d’Italia, Ma che ce frega o Felicità. Un rituale tribale amnesico che soprassiede su un particolare saliente: la tribù a cui apparteniamo non è soltanto quella dei vivi, ma anche quella di chi non c’è più e che sino a qualche ora addietro faceva parte delle nostre vite.
La conta dei cadaveri accompagna i telegiornali e le nostre giornate, trafigge le nostre coscienze – o incoscienze -, e i nostri cuori. Sono tanti, anzi tantissimi. Senza nome e senza storia. Sono salme tristemente associate alla zona di apparenza. Ma dietro cinquecento contagi in più e ottanta morti ci sono cinquecento vite e altrettante famiglie, e ottanta persone con le loro rispettive famiglie: d’origine o create a posteriori. Ci sono madri e padri, figli e nipoti. Mariti e mogli diventati vedovi. Senza tetto, anziani e giovani. Cardiopatici e sportivi.
Hanno tutti un nome e un’identità. Ma di questo nessuno parla, non c’è tempo, bisogna sbrigarsi a metterli in una bara e andare avanti per occuparsi dei successivi.
In alcune città del nord non c’è più spazio nemmeno al cimitero, e molti muoiono in ospedale. Luogo della morte, per alcuni non più della cura. Entrano da ammalati, non salutano i loro affetti e muoiono da soli, con perfetti sconosciuti, stacanovisti del dolore, che si occupano di loro.
Al punto in cui siamo arrivati, i canti sono diventati un oltraggio al silenzio e al rispetto. Al dolore e alla morte. Alle salme mute disposte in fila indiana verso l’aldilà. Senza nemmeno un familiare che possa accompagnarli e accompagnare sé stesso in direzione accettazione dell’altrove. Accade tutto così, d’un tratto, senza preavviso.
Con i canti e i cori, la morte diventa altro o da noi, per altri rispetto a noi.
E mentre gli americani mangiano ai funerali, tradizione che ci inorridisce e non ci appartiene, noi che stiamo assistendo alla trasformazione dell’Italia in un grande ospedale, cantiamo a squarciagola.
I canti, diventati orami inopportuni e insopportabili, un terribile affronto per chi non c’è più, un’emblema del cattivo gusto più che dell’Italia unita. Una sorta di goffo festeggiamento maldestro per ciò che non può essere festeggiato. Nemmeno l’attesa che tutto passi.
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