Ebbene sì, pandemia, nessuno di noi pensava che saremmo arrivati alla soglia dell’anno. Del tuo primo e, spero unico, compleanno. Della tua non gradita presenza nelle nostre vite.
Ci dicevamo (tutti): “e che sarai mai? Un’influenza un po’ più forte delle altre. Ti stanno strumentalizzando per vendere più giornali e per fare più programmi tv. Passerai: così come sei arrivata te ne andrai!”
E invece. Sei cresciuta sempre di più e dopo qualche mese da epidemia sei diventata pandemia. Camminavi carponi, poi ti sei messa in piedi, dimostrando di saper camminare con le tue gambe. Nessuno riusciva ad imbavagliarti, forse a riconoscerti in tempo. Ma questo non bastava a derubricarti dalle nostre vite e da quelle dei nostri cari.
Eccoci qui, dopo ben dodici lunghi mesi di angoscia e incertezza a leccarci le ferite, e a contare i morti e i feriti per colpa tua. Dopo un anno di chiusure, aperture, zone dal dolore cangiante e autocertificazioni mutanti, di drammatiche scelte tra la borsa o la vita, eccoci ancora qua insieme a te, tra noi.
Dopo un lunghissimo anno di trepidante attesa della tua fine, siamo costretti a trattarti come un evento importante, assurdo ma determinante.
Come colei – anzi al 2020 che ti ha faticosamente ospitato – a cui il NewYork Times ha dedicato la sua prestigiosa copertina del mese di dicembre, insieme alle vittime che hai disseminato nel mondo.
Come colei che ci ha fatto capire di che pasta siamo fatti. Forse.
Hai tolto il tappo alla follia collettiva, hai ispirato tutorial di ogni forma e genere, mandando in onda deliri mistici unitamente a informazioni utili che ci hanno fatto compagnia.
A immunità di gregge – e chi lo avrebbe mai detto che sentirsi parte di un gregge ci sarebbe poi così tanto piaciuto – conclamata, spero che non ti dimenticheremo, ci riprenderemo le nostre vite senza la tua presenza tra noi. Festeggeremo il momento in cui tu diventerai passato e smetterai di essere presente.

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