Quando nasce un amore si viene rapiti dall’urgenza di un’emozione, di un bacio e dell’altro. I pensieri si attorcigliano su un unico oggetto: l’oggetto del desiderio, il partner.
Emozioni in fila indiana che diventano il denominatore comune di un amore nascente. Incontri ravvicinati, chiamate e messaggi senza fine, un fiume di parole che nutrono il sentimento e dispensano brividi a profusione.
Parole, tante parole d’amore e altrettante promesse d’amore che inebriano testa e cuore, pelle e sensi. Dopo la fase di fusione e trepidazione segue o dovrebbe seguire la seconda fase: quella della giusta distanza dal mondo dell’altro. Quel luogo che offre in maniera sincrona la doppia promessa di ritrovarsi e perdersi, di perdersi per poi ritrovarsi.
Una delle trappole dell’amore è la paura. La paura dell’abbandono, di perdere l’altro, di una imminente separazione, così in preda all’incertezza invece di investire nel legame si tenta di legare il partner e di colonizzare ogni spazio della coppia.
L’altro in realtà non ci appartiene. Non è uno scrigno segreto da forzare. Non è una terra da colonizzare ma una geografia inesplorata da assaporare. Nel rispetto dei tempi, dei modi, dei silenzi parlanti e delle parole mute.
Ma nonostante le buone intenzioni e le buone maniere alcuni amori nascono zoppi e proseguono con affanno e disperazione.
Sono gli amori affamati, formati da un partner più o meno risolto e l’altro dipendente e fragile.
I protagonisti di questi amori faticosi e argillosi vivono in uno stato costante di riserva: di rosso fisso d’amore e di bisogno dell’altro. Una sorta di purgatorio dei sensi. Da soli non bastano a sé stessi e in coppia annaspano con il rischio di affondare.
L’autonomia, l’amor proprio e l’indipendenza rimangono gli ingredienti per amori sani e felici.
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