Definizione di femminicidio
Il termine femminicidio è un neologismo che identifica i casi di omicidio doloso e preterintenzionale in cui una donna viene uccisa da una persona di sesso maschile per motivazioni oscure, legate al dominio, al possesso, al genere. Purtroppo continuiamo a parlarne, scriverne, rilasciare interviste, ma non cambia assolutamente nulla. Piccoli uomini crescono e diventano aggressivi e violenti, e piccole donne crescono ma in realtà non crescono, e si fanno sottomettere.
Dalla morte della famiglia alla morte in famiglia. Stalker, femminicidio, manipolazioni e maltrattamenti
In una società che richiede dei sacrifici irragionevoli per non farci violentare invece di pensare a come educare chi violenta, a novembre, e a quanto pare soltanto a novembre, si ricorda la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Novembre è un mese funesto e grigio. Non soltanto per i suoi colori opachi e autunnali e per le festività dei morti, ma perché il venticinque si festeggia, anzi sarebbe meglio dire si ricorda, la giornata internazionale contro la violenza sulla donna. Una giornata assurda che non ci sarebbe mai dovuta essere.
Mariti che uccidono le mogli. Uomini che uccidono i figli, la moglie e poi loro stessi. Figli che strangolano i genitori o che li accoltellano senza pietà e senza rimorsi. Padri che sterminano l’intera famiglia e poi scappano via o si uccidono. Sorelle che uccidono la madre e che si alleano con i loro giovani amanti.
Rituali estemporanei o amabilmente organizzati e premeditati, tracce disseminate qua e là, camuffate o mistificate, cadaveri spezzettati e nascosti.
Gesti esibizionistici e voyeuristici.
Delitti atroci, efferati e imperdonabili, spesso sprovvisti di sensi di colpa postumi.
Una donna quando diventa madre diventa doppia, poi divisa a metà e mai più integra: la vita a cui ha dato la vita diventa la sua priorità emotiva. Per sempre.
Ma nonostante ciò, a volte, i genitori vengono presi a coltellate e anche uccisi, soprattutto le donne-madri. Accade dappertutto, anche nelle migliori famiglie, nessuno è escluso.
Cos’è successo alla famiglia?
La famiglia è cambiata nella forma e anche nella sostanza. L’abbiamo voluta allargata, forse l’abbiamo subita e ci siamo dovuti abituare per sopravvivere.
L’abbiamo vista smembrata e ricomposta, abbiamo dovuto fare i conti con realtà nuove; ma a quanto pare sembra non funzionare più niente. Le nuove famiglie, migliori, peggiori non so – con estreme difficoltà sociali e antropologiche nell’adattarsi al tempo che cambia – corrono il rischio di fare acqua da tutte le parti e di mietere vittime e carnefici.
In questa famiglia in cammino incontriamo vari tipi omicidi, alcuni drammaticamente assurdi.
Dobbiamo differenziare l’omicidio generico, rappresentato da una “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, gravissimo anch’esso, e il femminicidio che si concretizza con la barbara e impietosa uccisione di una donna da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, che avrebbe dovuto amarla e anche proteggerla.
Le leve (o mine) psichiche che fanno scattare questo efferato omicidio sono tante, che cercherò di analizzare in questo mio scritto, ma spesso la violenza è riconducibile alla mancata sottomissione fisica e soprattutto psicologica della vittima. Una donna che decide di ribellarsi, di non amare più o di amare altrove, di tradire o di ribellarsi viene brutalmente uccisa.
Purtroppo vige ancora un retaggio culturale malsano strettamente legato a una cultura patriarcale arcaica, in cui la donna è considerata proprietà dell’uomo.
Così, quando la proprietà si ribella e decide di non fare più la proprietà le viene strappata via la vita.
L’uccisione non è altro che l’ultimo atto di un percorso disseminato di violenza, che all’interno del rapporto di coppia o familiare – quel luogo che dovrebbe essere caldo e sicuro e che dovrebbe fare sentire al sicuro – si nutre di manipolazione, oppressione, cattiveria, maltrattamento, sino a dare vita ai più svariati disturbi post-traumatici da stress che rendono la donna ancora più fragile e inerme.
La testimonianza di Anna, una sopravvissuta
Gentile Dottoressa,
Vorrei gridare al mondo quello che mi è accaduto, adopero il suo bellissimo sito sperando di aiutare altre donne. Mi ero sposata per amore, solo per amore. Era una meraviglia di uomo: dolce, premuroso e anche geloso. E a me, che ero stata una non amata o forse poco amata, piaceva moltissimo. La sua gelosia mi piaceva, mi faceva sentire accudita e protetta. Mi sentivo fragile e al sicuro, tremendamente sua. Mia madre mi osservava e mi diceva che qualcosa in lui non andava, mi diceva che era eccessivo, aggressivo, ma io non lo vedevo e lui, lentamente, mi allontanò dalla mia famiglia.
Mia madre mi parlava di violenza di genere, di fare attenzione a tutto, sino a portarmi infiniti articoli di giornale sul femminicidio e documentazioni varie sulla violenza in Italia, tema così tanto attuale.
Prese da internet articoli scientifici sulla violenza sulle donne, testimonianze di violenza e abusi, ma niente da fare, cara Dottoressa, io ero annebbiata e perdutamente innamorata.
Ora capisco, a posteriori, che il mio carnefice mi allontanava da tutti, soprattutto da mia madre, per controllarmi meglio e per evitare che mi si aprissero gli occhi soprattutto su di lui. Nei mesi la situazione peggiora irreversibilmente: mi tradisce e io lo scopro, mi riempie di botte, lividi e vergogna. Lo perdono e mi convinco che è colpa mia che lo trascuravo e non lo amavo abbastanza. Mi stringe a lui e mi fa sentire sua. Mi fa fare due bambini, uno dietro l’altro, che sono la mia vita, ma mi riempie di botte se sbaglio qualcosa. E a quanto pare io sbaglio di continuo. Vivo nel terrore e nell’isolamento. Ho paura. Tremo. Tento di scappare, ma mi riprende. Mi toglie il cellulare e io ho paura, paura davvero. Mi rompe una costola e finalmente mi porta in ospedale perché non respiro e mi dice che se parlo con qualcuno uccide i miei figli.
Chiamo mia madre dall’ospedale, una psicologa mi aiuta e mi dà coraggio, piango una quantità di lacrime infinite e non respiro dal dolore e dalla paura, gli mando i carabinieri a casa, lo denuncio. Adesso vivo in un’altra città con i miei genitori e i mie figli. Ho ancora paura, non dormo se sono da sola, sono in cura da una dottoressa dolcissima e sono certa che ce la farò.
Se solo ci avessi pensato prima?
Dottoressa per favore pubblichi questa mia testimonianza penso che possa aiutare tante donne come me.
Anna
Due sindromi, due successive forme di maltrattamento
In clinica sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti: la sindrome di Stoccolma domestica e la sindrome della donna maltrattata.
- La sindrome di Stoccolma domestica é caratterizzata da una condizione psicologica in cui una persona, solitamente donna, è vittima di un sequestro o di una condizione di limitazione della propria libertà (anche di cuore e di pensiero). In questi casi, nonostante la logica reazione dovrebbe essere la ribellione da parte della vittima, appaiono in maniera inaspettata e pericolosa sentimenti amorevoli e di sudditanza psicologica nei confronti del proprio abusatore, marito o fidanzato che sia. Nelle donne maltrattate e manipolate, tale sindrome si snoda con dei meccanismi che in psicologia si chiamano di coping. Il termine coping è associato al concetto di stress, deriva dall’inglese to cope with e significa “fronteggiare, reagire, resistere, gestire”. La donna-vittima si concentra su come sopravvivere in una situazione cronica di stress e disagio: mentre cerca di evitare le violenze più gravi minimizza quelle quotidiane, considerandole poco gravi. Vede quello che di buono c’è nel carnefice e non quello che non va bene. La donna viene rapita da una sorta di miopia funzionale: non vede perché non ha la forza di affrontare questo strazio, di lasciare il compagno, di cambiare, di ribellarsi, di rinascere. Si convince, o si fa convincere, di dover stare con il marito-carnefice-maltrattante per proteggere dal peggio i propri figli e le persone a lei care. È una donna immobilizzata dalla paura.
- La sindrome della donna maltrattata è stata individuata dagli studi di Leonore Walker (Walker, 2007), una psicologa americana che ha fondato il Domestic Violence Institute, ha documentato il ciclo di abusi e di violenza di genere. È apparentemente simile alla sindrome di Stoccolma, ma ha delle fasi distinte. La violenza è ciclica: la prima fase è di sottomissione e di accumulo di stress e tensione, la seconda fase è caratterizzata da aggressioni, violenze e percosse, la terza fase viene considerata di luna di miele. Quest’ultima fase amoreggiante è una fase chiaramente illusoria perché crea nella donna-vittima una falsa speranza sul partner. “Questa volta cambierà, lo farà per amore” pensa, illudendosi e perpetuando la sofferenza e il dominio del suo carnefice. La donna, nel tempo, diventa sempre più fragile e bisognosa di tutto: di soldi e di indipendenza economica, che spesso correla con quella psichica, di affetto, di sostegno psicologico. È depressa, stressata, ha paura che le vengano tolti i figli e si immola sul talamo sacrificale affinché niente cambi sino all’ultimo, solito, atto: la sua morte.
Cosa accade nella psiche-corpo della donna maltrattata?
Ogni donna, in base alla propria storia di vita e alle proprie risorse psichiche, reagisce con modalità differenti. Chi attiva meccanismi di difesa per compensare il trauma subito; chi, invece, adotta meccanismi di negazione della realtà e dell’accaduto mettendo in atto strategie psichiche difensive; altre donne ancora si identificano totalmente con l’aggressione e con l’aggressore, non riuscendo a mantenere quella distanza necessaria per un possibile allontanamento e distacco e per la futura elaborazione psichica, sviluppando inoltre sentimenti di colpevolezza.
A seguito di un trauma così importante viene a essere minata del tutto e dalle fondamenta l’autostima e la fiducia: elementi indispensabili per possibili future relazioni sentimentali e sessuali sane. Quando si ama tutto sembra essere lecito, anche il possesso confuso per gelosia e amore. Quando si ama tanto e tanto male, l’aderenza alla realtà viene smarrita; quello che in situazioni di integrità emozionale e psichica verrebbe considerato folle, in situazioni di sudditanza psicologica viene confuso per amore. Addirittura, per protezione. Quando si ama, inoltre, si pensa che sia per sempre.
Quando si ama male, la parola crisi o fine di un amore non viene nemmeno contemplata, perché non appartiene al vocabolario della follia amorosa.
Il per sempre va ben oltre la volontà della donna, e anche oltre la vita.
Quando uno stalker, o un uomo disturbato, violento e dannato, viene minacciato di abbandono, reagisce con efferata cattiveria e perseverazione ideica. La sua donna rimane sempre sua, sottomessa e infelice, ricoperta di lividi, ma eternamente sua, anche contro la sua volontà.
Quali meccanismi scattano nella mente di un uomo che aggredisce sino alla morte la donna che dichiara di amare?
Carnefice e vittima sono una coppia perfetta, perfettamente in sintonia e paradossalmente in armonia. Come in tutte le coppie, anche in quelle poco assortire o si troppo assortite sul piano relazionale, formate da vittima e carnefice, esiste un legame inconscio talmente profondo e saldo da condurre alla morte di lei e alla carcerazione lui. Due vite praticamente distrutte. Quando questa coppia ha dei bambini, verranno immediatamente consegnati alla disperazione più assoluta e diventeranno figli del femminicidio: orfani di una madre morta e di un padre assassino e in carcere.
Femminicidio e violenza sulle donne. Esempi da non seguire mai
Lui comanda, lei obbedisce. Lui controlla, lei si fa controllare. Lui insulta, e lei confonde le parole offensive per parole d’amore e di sana gelosia. Lui aggredisce, lei si fa aggredire diventando estremamente tollerante. La donna-vittima-sottomessa protegge il suo carnefice dallo sguardo inquisitorio del mondo, dall’evidenza dei fatti e dal suo stesso esame di realtà.
Poi, un giorno, all’improvviso – ma sappiamo bene che il carnefice aveva già lasciato sulla strada di questo amore tante tracce di sé e della sua aggressività, come i sassi di Pollicino – scatta il famigerato e falso raptus omicida.
Così scrivono i giornali. Niente di più falso, scrivo io. La donna sperava, come fanno in tante, che il tempo avrebbe reso sano questo suo amore tossico.
Aspettava silente, coprendo ogni aggressività con il balsamo dell’amore. Sperava che l’amore avrebbe curato ogni cosa. Sperava inoltre che a lei non sarebbe mai successo.
Ma le coltellate – non una, inflitta per un transitorio stato alterato di coscienza, ma tante, inflitte con rabbia e ferocia – o l’acido – amorevolmente acquistato e utilizzato con dovizia di particolari – hanno poi fermato il tempo.
Vitriolage, il viso deturpato dall’acido. Una deriva della misoginia
Si chiama vitriolage e cancella il volto dell’amata con l’acido. Irreversibilmente.
L’uomo non accetta l’abbandono. La donna che è stata sua, nonostante lei non voglia più esserlo, non sarà mai di nessun altro. Nemmeno di sé stessa. La vendetta viene pensata, accarezzata con la fantasia, centellinata con il piacere sadico di chi la metterà in scena da lì a breve. Niente avrà più senso senza di lei. La desidera morta, danneggiata, sfregiata. Uno schiaffo non gli basta più per placare la sua rabbia, per lenire la paura dell’abbandono. Soltanto una vendetta perfetta, perfettamente organizzata, e irreversibile placherà la sua follia. Quella donna dopo il suo sfregio non avrà più un volto e nemmeno vita.
Perché l’uomo adopera l’acido. La vendetta, un cerotto per l’anima
L’acido, dall’acido nitrico a quello cloridrico, ad altre sostanze corrosive, andrà a corrodere la pelle, fino ad arrivare ai tessuti, fino alle ossa del viso, rendendo – irreversibilmente – quelle donne delle mostruosità, l’ombra di quello che erano.
L’acido si poggia sulla pelle, inizia a penetrarla, a corroderla, unitamente alla psiche della donna. È una modalità per cancellare definitivamente il volto della donna amata, o meglio di colei che un tempo era in suo possesso, esattamente come un trofeo narcisistico di caccia.
Il volto correla con la dimensione identitaria di ognuno di noi. Ci rappresenta, è il nostro biglietto da visita. Siamo noi.
Ci vorranno, poi, infinite e dolorose tappe di chirurgia plastica e ricostruttiva – e non sempre sono bastevoli – per restituire dignità a queste donne sfregiate.
Tappe dolorose e simboliche che, unitamente alla pelle, ai muscoli e ai tessuti, dovrebbero risanare l’anima trafitta e corrosa da una mutilazione estetica così drammaticamente grave. Il dopo non sarà più mai uguale al prima, il volto ricostruito non sarà mai uguale al precedente.
Queste donne dovranno indossare i panni della ricostruzione e l’anima del coraggio per tentare di rimettere insieme i cocci del cuore.
Il messaggio atroce che questi uomini incidono a fuoco sul volto delle loro vittime è il seguente:
- “Né con me né senza di me”.
- “Se mi lasci, ti cancello l’identità”.
- “Non avrai altri dopo di me”.
- “Non avrai un volto da truccare, da esibire”.
- “Non avrai un volto per sedurre, per essere accarezzata, o baciata”.
- “Dopo di me, non sarai più tu”.
Come difendersi dal femminicidio. Cosa dovrebbero fare le donne per salvarsi la vita
Donne sole, bulimiche d’amore e di attenzione, sicuramente fragili e insicure, si consegnano senza riserve tra le braccia possenti e protettive del loro carnefice, confondendo l’amore con il possesso, la mancanza di attenzioni con l’assoluta mancanza di rispetto, e le aggressioni fisiche e psichiche con le dimostrazioni d’amore. Pur di essere amate e di sanare le ferite d’infanzia si accontentano di tutto anche della brutta copia dell’amore con la sua deriva inarrestabile.
La solitudine è un fardello pesante, così come lo è la ferita dei non amati, quella ferita sanguinolenta che nutre la disistima e la fragilità delle donne che un tempo non sono state amate a sufficienza dalle figure genitoriali. Accontentarsi, però, non scegliere o peggio ancora subire abusi, soprusi e violenze, da vita a una ferita ancora più pericolosa che diventata poi il varco verso la manipolazione, la prevaricazione, lo sfregio del suo volto o l’uccisione.
Il silenzio uccide, porta direttamente alla morte o alla dose letale di acido.
- Esiste una correlazione tra fame d’amore e stalking?
- Esiste un legame tra donne sottomesse e bisognose d’amore e uomini aggressivi e dominanti, o pseudo-tali?
Sicuramente sì.
Le fragilità emotive partono da lontano, dalle terre dell’infanzia. Queste donne, nel tentativo malsano di lenire le ferite dell’infanzia, scelgono uomini sbagliati e tossici che le condurranno direttamente alla morte. Sono donne fragili e insicure che vivono solo se amate: tra la sottomissione e le percosse, tra i ricatti e i compromessi dell’esistenza. Sono donne che si accontentano, che non vedono – o non vogliono vedere -, che soffrono in silenzio, che sperano ancora di amare ed essere amate.
Queste donne soffrono di “dipendenza affettiva”, una pericolosa droga d’amore, che le rende incapaci di odiare e di ribellarsi ai loro carnefici, diventando così protagoniste del femminicidio e dello stalking.
Come prevenire il femminicidio e gli abusi. L’acido e la morte non appaiono all’improvviso: gli amori malati che fanno ammalare portano direttamente alla morte
Non si tratta di una somministrazione inaspettata, ma accuratamente programmata. Una vendetta lenta, che questi uomini dannati hanno organizzato con cura e che hanno adoperato come balsamo per le loro ferite: per lenire la loro paura dell’abbandono. La donna, in questo teatro dell’assurdo, ha un ruolo decisivo. Centrale. Può salvarsi la vita o consegnarsi alla morte certa.
Queste donne, vittime del loro stesso bisogno d’amore, non sono in grado di distinguere l’amore dalla follia. Non vedono, non sentono, non denunciano, sperano in un cambiamento che non avverrà mai, in una gentilezza. Attesa che, come sappiamo, rinforza la follia del loro carnefice.
Sono donne incapaci di provare rabbia e odio, elementi centrali per mantenere la giusta distanza dal mondo dell’altro, per mettere a fuoco ciò che non va più bene, per fare un esame della realtà e mettere a tacere il cuore a favore dell’intelletto, soprattutto quando l’altro è il loro carnefice.
Spenti i riflettori della passione, del desiderio e della seduzione, la donna dovrà fare i conti con i lividi del corpo e dell’anima.
Sappiamo bene che il dopo non sarà mai uguale al prima. Sappiamo che la sofferenza che si prova quando finisce un amore è atroce e che l’abbandono trasforma questi uomini disturbati e fragili in folli, stalker e assassini.
Sappiamo anche che c’è uno stalker perché c’è una vittima, e c’è un uomo (falsamente) dominante perché c’è l’altra metà del cielo, la donna sottomessa.
E, sappiamo anche che, ci sono dei segni prodromici che vengono sottostimati, ignorati e non riconosciuti; e che sono davvero gli unici segnali di fumo che potrebbero salvare la vita alle donne.
Prevenzione del femminicidio. Un suggerimento per tutte le donne
Un uomo aggressivo non guarisce. Un uomo che insulta, che picchia, che ferisce lo farà ancora una volta, e ancora un’altra volta. Quando l’aggressività travalica il buon senso e i freni inibitori, il passaggio all’atto – in psicoanalisi detto acting out – avverrà infinite altre volte, sino a sfociare nel gesto irreversibile: lo sfregio o l’uccisione della donna. Conosciamo bene l’epilogo, è solo questione di tempo. Questi uomini sono mossi da una fissazione ideo-affettiva, tipica dello Stalker, quindi è solo questione di tempo, prima o poi quella donna verrà uccisa. La fame d’amore non è una malattia cronica e letale, ma è curabile esclusivamente con la psicoterapia. Unica strada percorribile per fermare questi uomini prima che accada la tragedia.
Quindi, ricapitolando: chiedere aiuto ai clinici e alle forze dell’ordine.
Guarda anche il sito di Doppia Difesa, una fondazione ONLUS che aiuta chi ha subìto discriminazioni, abusi e violenze ma non ha il coraggio, o le capacità, di denunciare.
I figli del femminicidio, vittime e orfani: il femminicidio in Italia
Un capitolo estremamente doloroso va dedicato ai bambini, figli di uno strazio inenarrabile. Madri manipolate, maltrattate e percosse, sfregiate con l’acido e per finire uccise. Efferati delitti, erroneamente chiamati d’amore.
Padri in galera. E figli orfani, e della peggiore specie. La madre morta per mano del padre. Entrambe le figure affettive di riferimento distrutte senza possibilità di riabilitazione alcuna. Gli attori protagonisti di questi amori malsani non sono soltanto i coniugi, ma, purtroppo, anche i loro bambini. I figli del femminicidio sono vittime e orfani allo stesso tempo.
Sono bambini che vengono strappati con violenza dall’abbraccio rassicurante dell’infanzia, per transitare repentinamente, senza se e senza ma, in una drammatica dimensione adulta. Sono bambini che perdono la madre perché uccisa, e per di più dal padre, sprovvisti di riferimenti affettivi genitoriali, dilaniati tra assistenti sociali, nonni devastati dal dolore e tribunali. E inoltre, sono bambini che assistono inermi a maltrattamenti, insulti, botte e sevizie dell’anima e del corpo. Assistere, anzi costringere un bambino ad assistere alla violenza, é un reato. Le nuove leggi e i nuovi studi sul femminicidio hanno stabilito che si tratta di un reato perché i bambini, esattamente come le loro madri, vanno protetti. Adesso è chiaramente e definitivamente un reato.
Sulla scia della convenzione di Istanbul del 2011, finalmente una nuova sentenza del 2015, tenuta, finalmente, in debita considerazione a causa degli ingravescenti ed efferati delitti. Le donne uccise in Italia sono all’ordine del giorno, gli articoli di giornale sui casi di assassini al femminile aumentano di giorno in giorno; sembra trattarsi di una deriva inarrestabile.
Il coraggio ti salva la vita. La trappola dei ruoli
Una mamma coraggiosa, audace e risolta sul piano psichico, non solo salva la sua di vita, ma salva quella del suo bambino. Un bambino cresce respirando ed interiorizzando quello che vede fare in famiglia. La famiglia regala, nel bene e nel male, un imprinting sensoriale e comportamentale al bambino che diventerà prima adolescente e poi adulto, e che tenderà a ripetere immodificato nel tempo. Se il bambino vede cattiveria la emulerà considerandola una risposta sana e adattiva alle difficoltà della vita. Se vede manipolazioni e violenza le farà sue e le riproporrà. Lo stesso dicasi per i comportamenti funzionali, amorevoli e adattivi.
Quanto un modello ti modella?
Il comportamento, visibile o invisibile, dei genitori è una sorta di bussola, di guida, di modello da seguire per orientarsi nella vita. Se i bambini vedono la violenza, impareranno la violenza.
Se vedono la mamma che subisce in silenzio, imparano la sottomissione e gli abusi.
Se vedono le botte al posto delle carezze, credono che quello sarà l’unico amore a cui potranno aspirare. I ruoli familiari hanno un ruolo centrale, spesso indelebile. Modellano psiche e comportamento, e scelte future amorose di vita.
Femminicidio in Italia. Qualche dato
I dati sono impressionanti e sono veramente tantissimi: “in Italia oltre 1500, secondo uno studio che sta portando avanti la dottoressa Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia all’Università Seconda di Napoli, consulente dell’Onu, della Nato e dell’Ocse in materia di violenza contro le donne e i bambini. Lo studio prende in esame i casi di bambini vittime del femminicidio tra il 2000 e il 2013, dimostrando che in Italia non esistono protocolli, percorsi, strumenti che offrano a questi orfani una vita migliore”.
Il ruolo della legge: legge, psiche e tutela del cuore
I casi vengono trattati dai tribunali dei minorenni alla stregua degli altri orfani, ma in realtà le loro storie sono completamente diverse. Un bambino orfano è un bambino straziato dalla perdita e dal dolore, un bambino che dovrà transitare da un processo psichico molto difficoltoso e ambivalente e che dovrà sicuramente essere aiutato per la sua futura ricostruzione psichica.
Protagonista di una atrocità senza confini, deprivato di amore e di quell’indispensabile base sicura su cui fondare la futura forza psichica.
Il bambino orfano, figlio del femminicidio, è un bambino addolorato dalla perdita dei genitori che dovrà attraversare le stesse fasi di una tradizionale elaborazione del lutto.
È un bambino abitato dalla rabbia, dall’aggressività, dal dolore che sarà costretto a rileggere la sua storia di vita familiare con gli occhi iniettati di sangue e aggressività, da incredulità e incomprensione.
Nella maggior parte dei casi, i tribunali dei minori affidano questi bambini ai parenti più prossimi, quasi sempre i nonni, ma non è detto che siano quelli materni, spesso infatti sono anziani o poco agiati economicamente. Un timore palesato dal tribunale è la possibile, se non probabile, strumentalizzare del bambino da parte dei nonni, i quali potrebbero crescere il nipote all’insegna dell’odio verso il padre, che comunque rimane sempre l’unica risorsa genitoriale rimasta in vita.
Senza regole e leggi severe, non esistono condotte univoche e questi bambini vagano da un’istituzione all’altra.
Antropologia della violenza di genere: dal delitto d’onore al femminicidio
La figura della donna e della mamma, durante la storia, ha attraversato momenti estremamente dolorosi e profondamente bui.
La donna sembrava non avere valore, poteva essere licenziata, violentata, minacciata, tradita e addirittura uccisa, in funzione dell’onore maschile e della sua tutela.
Il femminicidio, anticamente chiamato delitto d’onore, non veniva punito, anzi legittimato e considerato l’unica reazione e soluzione possibile in caso di tradimento e disonore. Bastava parlare d’onore maschile e il delitto veniva assolto e giustificato.
Il delitto d’onore
Il delitto d’onore di un tempo attraversa la storia e le regioni, passando dal sud a tutto il resto del mondo, per diventare oggi femminicidio. Morti al femminile, efferati delitti e atroci crudeltà che, finalità riparatrici a parte, hanno un solo denominatore comune: la violenza sulle donne.
Il delitto d’onore e il matrimonio riparatore erano regolamentati dal Codice Rocco, che avallava e giustificava il disonore da tradimento e il concepimento.
Negli anni venti, infatti, il matrimonio riparatore, prevedeva addirittura l’estinzione del reato di violenza carnale nel caso in cui lo stupratore di una minorenne accondiscendesse a sposarla, salvando l’onore della famiglia.
Da donna e da clinico, mi pongo un’infinità di domande
- Può un abuso essere ammantato da matrimonio?
- Il matrimonio non dovrebbe avere ben altre caratteristiche, emotive e relazionali?
- Chi ripara chi?
- Lo stupratore viene assolto davanti a Dio e alla società?
- O la donna, mediante il catartico matrimonio, viene discolpata dal reato del peccato carnale?
- La donna abusata, violentata e fecondata dal suo carnefice, dovrebbe subire in silenzio e imparare ad amare?
- E il nascituro, figlio della profanazione e dell’aggressività, quale dote affettiva porterà con sé?
- Credo che queste domande non abbiano bisogno di risposte, ma solo di importanti riflessioni.
La donna, in tutte le sue declinazioni, donna e madre, donna e lavoratrice non ha mai avuto una vita semplice. Anticamente, infatti, la donna che lavorava in un’azienda, veniva addirittura licenziata, se diventava madre.
Senza andare troppo lontano nel tempo, le donne che venivano lasciate dal marito non potevano risposarsi perché sarebbero state viste come delle donne dai facili costumi.
Ancora, in passato, alcune professioni di rilievo, come avvocati, giudici, poliziotti e chi avesse intrapreso carriere diplomatiche, erano assolutamente vietate alle donne, perché queste, avendo un utero (isteros) e un ciclo mestruale, erano considerate isteriche e labili emotivamente, quindi poco affidabili.
Altre importanti modifiche epocali, traguardi legislativi e simbolici, hanno aiutato la donna, madre, lavoratrice nel difficile percorso verso l’autonomia.
Leggi e tappe simboliche italiane
- Legge 9 del 1963
Vietato licenziare le donne lavoratrici che si sposano e mettono al mondo dei bambini, la legge è uguale per tutti, senza differenziazione di genere.
Questa legge dall’altissimo valore simbolico sembra avere dato libero accesso alle donne alla gestione della generatività, senza viverla come il contraltare della carriera lavorativa - 1966 la violenza sessuale
Viene finalmente considerata da condannare e viene considerata un reato nei confronti della donna e non solo un affronto alla pubblica morale. - Legge 66 del 1963
Fino a questo momento storico, le donne non potevano accedere ad alcuni servizi pubblici, come la magistratura, proprio per la loro vulnerabilità psichica “organo-correlata” (utero, isteros), quindi, portatrici sane di isteria e inaffidabilità. - 1970 legge sul divorzio
Anche la donna, non più felice all’interno del matrimonio, può sempre decidere di divorziare. Il divorzio consente alle donne di acquisire uno stato giuridico. Se prima da separate erano delle donne libertine e senza status, da divorziate potevano anche decidere di ricominciare daccapo altrove, senza colpe ed etichette sociali ghettizzanti. - Riforma del diritto di famiglia del 1975
Sino a quel momento il tradimento del marito, anche se certificato, non era causa di separazione o divorzio, il sospetto del tradimento della moglie invece si.
Con questa legge, uomini e donne, vengono trattati allo stesso modo, senza disparità alcuna.
Viene inoltre introdotta la comunione dei beni, considerando che il benessere della famiglia, dipende da entrambi i coniugi e che il lavoro da casalinga della donna, non retribuito, rende possibile il lavoro fuori casa del marito. - 1978 viene legalizzato l’aborto
Grazie a questa legge la donna non deve più rivolgersi a cliniche private, costose e inaffidabili per l’IVG, interruzione volontaria di gravidanza, ma sarà protagonista assoluta del proprio destino procreativo. - 1981 legge 44 viene abolito il delitto d’onore
La donna non è più un possesso dell’uomo, può tradire, lasciare, decidere di separarsi, e per questo non essere uccisa. - 1999 legge 38 lo stalking può essere punito
Questa legge tutela ancora le donne, finalmente il famigerato corteggiatore assillante e maldestro, che oggi sappiamo essere la figura maschile che più correla con il femminicidio, può essere punito dalla legge.
Anche questa legge sancisce la libertà delle donne, non più considerate in possesso e un possesso dell’uomo. - 2013 legge 93 legge sul femminicidio
Questa legge tutela e incoraggia le donne a denunciare i loro partner violenti e aggressivi; questi, infatti, possono essere immediatamente allontanati da casa.
Amori criminali. La violenza assistita
Vedere la violenza è come subirla. Si chiama violenza assistita.
L’amore, o presunto tale, continua indisturbato a mietere vittime. Donne sfregiate dall’acido, altre avvelenate con il detersivo durante la gravidanza, maltrattate e uccise brutalmente.Vittime della fiducia. Vittime dell’amore totalizzante. Vittime del coniuge. E, soprattutto, vittime dell’ultimo appuntamento.
A letto col nemico, e lo chiamano amore
La manipolazione della mente altrui e la violenza, questo non è amore.
Amori violenti, amori sbagliati e bisognosi, amori tossici. Amori che tolgono, finanche la vita. La violenza non è soltanto fisica o psichica, si concretizza anche con la negazione del sentire il dolore dell’altro tanto da estirpargli dall’anima la voglia di vivere, instillargli l’arrendevolezza, il bisogno, il credere nell’ultima possibilità.
Ultimo appuntamento: nuovi e più funzionali equilibri o presagio di morte?
Gli amori malsani, o amori criminali, sono tali proprio perché entrambi i protagonisti di quell’amore non stanno bene con loro stessi e di conseguenza con l’altro coniuge.
I protagonisti di questi amori criminali sono sempre: un partner dominante e uno sottomesso.
L’uno esiste perché esiste l’altro. Dinamiche di potere e di amorevole sottomissione, la paura di perdere l’amato e l’angoscia abbandonica che attanaglia ogni possibilità di cambiare traiettoria rappresentano il denominatore comune che regolamenta le emozioni e le azioni dello Stalker, della sua perseverazione ideica e del futuro, inevitabile, femminicidio.
Se un amore inizia male e prosegue peggio non ha motivo di avere un futuro. È perfettamente inutile, nonché rischioso, regalare l’ultima possibilità, il famigerato ultimo appuntamento, a colui che potrebbe indossare per l’occasione l’abito dell’assassino.
Una pericolosa deriva dei ruoli: dipendenza affettiva e delitti
Molte donne vivono da sottomesse, tra botte, ricatti psicologici e lividi dell’anima.
Basta poco, poi, come una carezza e tutto sembra ritornare alla normalità.
Cosa muove le fila di questi atipici e rischiosi comportamenti amorosi?
Questi comportamenti amorosi partono da lontano, e da lontano andrebbero curati. Vengono mossi da un potente meccanismo che dimora nella psiche: la coazione a ripetere e la fame d’amore. La coazione a ripetere è quel meccanismo della psiche che ammanetta a scelte sbagliate, alla riedizione di comportamenti sbagliati. Al perdono, per poi concedere l’ultimo appuntamento (che mai si dovrebbe concedere).
La terra dell’infanzia è il luogo dove nasce e cresce (o meno) l’autostima, l’amor proprio e la capacità di dire “No, io valgo”.
Queste donne soffrono di dipendenza affettiva, una pericolosa droga d’amore che le rende incapaci di odiare e di ribellarsi ai loro carnefici, trasformandosi in possibili protagoniste del femminicidio.
L’ONU ha definito il femminicidio e gli abusi sulle donne come un “fenomeno endemico di proporzioni globali”, capace di inquinare le relazioni quotidiane, familiari e affettive.
Carezze rubate e lividi. La rabbia, la grande assente
Carezze rubate e fortemente desiderate, intervallate da botte e sevizie. Un corpo e una psiche segnate dalla sofferenza diventano i protagonisti di questi amori malati e patologici.
Sembra proprio che queste donne, vittime del loro stesso amore, siano incapaci di provare rabbia e ribellione, elementi centrali e determinanti per mantenere la giusta distanza dal mondo dell’altro.
Uno sguardo agli uomini violenti. Sono davvero così dominanti? In realtà no. Sono uomini fragili, bisognosi di cure, attenzioni continue e sostegno. Uomini che mantengono la loro egemonia e il loro potere affettivo attraverso le botte e le percosse fisiche e psichiche. Uomini che non sanno essere autorevoli in amore, ma che adoperano l’aggressività per marcare il loro territorio familiare e relazionale. Sono uomini che, adoperando la fragilità e la fame d’amore della loro donna, la circuiscono, la seducono, la manipolano.
- Come si riconosce l’uomo violento e abusante?
L’uomo violento, falsamente dolce e contenitivo, solitamente si smaschera facilmente, per chi ha occhi per vedere. Chi attua il gaslighter, per esempio, ha un profilo personologico solitamente e falsamente dominante e intrigante; mette in atto tutta una serie di strategie seduttive e di dominio sulla sua vittima al fine di poter esercitare il proprio potere su di lei. L’autostima dell’uomo che fa della violenza la sua arma di seduzione, in realtà è parecchio fragile, si nutre e si fonda sulla distruzione dell’altro. Mentre lo stalker ama, con modalità assillanti e simbiotiche la sua vittima, desiderandola per sé e non tollerando la possibilità di perdere l’oggetto d’amore, il gaslighting, invece, desidera manipolare, controllare e distruggere la sua donna.
La violenza cambia veste e forma, ma trattasi sempre e comunque di violenza sulla donna.
Uomini abusanti e maltrattanti, uomini che accudiscono e che poi aggrediscono, si legano sempre a donne sottomesse, fragili e manipolabili. Donne che barattano la loro dignità per briciole d’amore. I soliti attori di un film già visto. Il partner più debole e fragile si lega irreversibilmente al partner apparentemente più forte e dominante lasciandosi sottomettere e guidare nella vita. Ogni possibile assenza o distanza genererà nell’altro lo sconforto e cupa angoscia.
Donne fragili, bisognose di sostegno e cure, donne che si prendono cura del partner per paura di essere abbandonate o sostituite. Che subiscono, che si accontentano, che soffrono e soprattutto che stanno zitte.
In realtà sono donne che hanno paura di cambiare e di crescere. Temono di non farcela, di non poter bastare a loro stesse e ai loro figli e che senza quell’uomo la loro vita diventa buia, vuota, unitile.
Donne che non sono state amate adeguatamente e che non hanno ricevuto quell’amore e quella fiducia primaria e di base necessaria per affrontare la vita e i legami.
- Cosa impedisce a questa donne di dire basta?
- Cosa le tiene legate a questa atroce sofferenza dell’anima e del corpo?
L’incapacità di dire “NO” è vera problematica che affligge chi soffre di dipendenza affettiva
Queste donne, così tanto deprivate d’amore, instaurano a loro volta legami problematici, senza quelle indispensabili quote di autonomia e indipendenza. Legami che mettono al centro del loro equilibrio psichico il legame con il loro partner; centralità che le spinge ad accettare ogni sofferenza, ogni abuso, ogni sopruso.
Un amore malato, sofferente e soprattutto patologico, è un amore malsano che contiene sin da subito i primi segnali di disagio e pericolosità. Telefonate persecutorie, aggressioni verbali, si alternano a maltrattamenti psicologici e poi, purtroppo, fisici.
Tutto questo e molto altro dovrebbe far scattare una sorta di allarme interno, ma le donne che soffrono di dipendenza d’amore, invischiate nelle maglie di questi legami, non se ne rendono conto, sentendosi addirittura lusingate da tali condotte, nonché falsamente amate.
Senza la violenza fisica si può parlare davvero di violenza sulle donne? Assolutamente sì
Il gaslighting è un crudele comportamento manipolatorio messo in atto da parte di un partner abusante per far si che la vittima – solitamente la sua donna – dubiti di tutto, soprattutto di sé stessa e della sua capacità di analizzare gli eventi (in clinica detto esame di realtà), in modo che, come quando viene lentamente inoculato del veleno, cominci a sentirsi confusa, a pensare davvero di essere inadeguata, sbagliata, folle. Anche questa forma di manipolazione appartiene alla violenza sulle donne. Ciò che non è sano e lineare, equilibrato e non asimmetrico e sperequato, ciò che fa male e rende la qualità di vita scadente e al limite della follia non è amore. Amore e morte, amore e lividi, amore e e intermittenze del cuore sono delle dicotomiche scissioni che abitano gli amori ambivalenti, gli amori tossici, gli amori letali.
Gli amori che quando miracolosamente giungono al termine non lasciano un vuoto, ma spazio.
Il lento processo di avvelenamento psichico prende il nome di gaslighting
Il gaslighting è la manipolazione della mente altrui, sottile e costante, come la goccia che buca la roccia. La vittima è ignara, non comprende anche se si sente confusa, decisamente poco consapevole del suo malessere e del suo sentire più profondo. Non immagina minimamente che quello che sta vivendo sia violenza, lo confonde con l’amore, con la cura, con la sana gelosia.
Le vittime prescelte non sono quasi mai donne serene e psichicamente risolte, ma donne per le quali l’amore è una medicina, che mentre ammala e fa finta di curare invece avvelena. Donne che non si accorgono della violenza, ma che la confondono per presenza. Donne che vivono soltanto se amate.
La coppia: palcoscenico o terreno fertile?
La coppia, caratterizzata dalla vittima e dal suo carnefice, è come sempre una coppia collusiva: l’uno mantiene in vita il potere o la sottomissione dell’altro e viceversa.
L’uomo abusante esiste perché esiste l’altra metà del cielo: la sua vittima.
La donna fragile ed emotivamente vulnerabile in un primo momento si sente protetta, contenuta, aiutata e amata, esiste soltanto tra le braccia del suo carnefice. Ma in realtà non è proprio così.
Cosa accade nel tempo quando la violenza serpeggia silente nella coppia?
La violenza, psichica o fisica, lascia evidenti tracce della sua presenza. Appaiono i primi disturbi psico-somatici, le insicurezze, le ansie, accompagnate da cefalee e notti infinite e insonni.
L’obiettivo del gaslighting – che in seguito diventa stalker – è quello di privare la sua vittima della sicurezza e della fiducia in sé e della capacità di intendere e di volere.
Per la donna prescelta diventa un percorso senza possibilità di ritorno. La sua vita di coppia diventa un baratro di disperazione e sofferenza, senza possibilità di fare ritorno alla vita vera, senza il seme velenoso della manipolazione.
Seduzione e manipolazione: due facce della stessa medaglia
L’uomo violento non è mai coerente: abusa e seduce, manipola e strega, nutre e depaupera. La violenza – psichica, emozionale e fisica – diventa la sua arma di protezione e di seduzione. L’alternanza di seduzione e manipolazione, di dolcezze e di feroci insulti, è un’altalena davvero letale per ogni struttura psichica, anche la più tenace.
Ambivalenze linguistiche: quando le parole diventano lame, coltelli e spade che trafiggono
L’uomo abusante e violento con la sua donna adopera una modalità linguistica particolare. Le parole hanno un potere immenso, nella vita, nel mio lavoro, in amore. Curano, seducono e ammaliano, accarezzano e feriscono. In amore, soprattutto, sono davvero più preziose di mille seduzioni: rinsaldano l’intimità e la mantengono al sicuro da mille intemperie. Le parole sono un’arma a doppio taglio: accarezzano e feriscono, drogano e fanno compagnia, nutrono i silenzi e l’anima, e quando non ci sono più, o non sono più leali e congrue, un amore sfiorisce, giunge alla morte. Quando le parole diventano spade fanno più male di mille pugni in pancia, e talvolta accompagnano alla morte. Nel gaslighter, in una prima fase, la fase della manipolazione, vengono agite delle vere e proprie distorsioni della comunicazione.
Il protagonista invia alla vittima dei messaggi contrastanti e ambivalenti: da una parte ostili e aggressivi, dall’altra seduttivi e allo stesso tempo instillano nella sua vittima – la donna abusata – il dubbio costante su ciò che è stato percepito.
L’ostilità non è mai manifesta, quindi è davvero la peggiore.
Strategie, affettuosità, parvenza di cura e di protezione: in realtà l’uomo manipolatore gioca a scacchi con la mente della sua vittima. L’ostilità e la violenza viene ben celata dietro silenzi e bronci protratti, dietro frasi offensive e ambivalenti, umilianti e denigratorie, espresse sempre sotto forma di scherzo.
La vittima è sempre più confusa, a un passo dal delirio e dalla follia.
Tra colpa e depressione: il vissuto della vittima
La donna oscilla da uno stato depressivo e di colpevolizzazione alla totale confusione mentale ed emozionale. Crede di essere amata e protetta, ma sta male e non capisce.
Il sentire entra in conflitto con il volere. Testa e cuore fanno a pugni. Così come emozioni e pensieri, quelli sensati e superflui. La vittima, infatti, inizia a convincersi di ciò che le è stato detto e anche fatto credere. La presa di coscienza è lenta perché intrisa di sentimento, ma una volta che il processo ha inizio non si arresta se non con la sua fuga dal legame, o nel peggiore dei casi quando è davvero troppo tardi, con la sua morte.
La donna manipolata e abusata crede di avere tutte le colpe del mondo, crede innanzitutto di essere la sola responsabile della situazione che si è venuta a creare.
Immagina anche di non essere adeguata e di non godere di una buona salute mentale.
Quale soluzione? Il male va raccontato, urlato e soprattutto denunciato
Gli uomini violenti si presentano come coloro che salvano la vita, e invece la vita la tolgono. Si presentano come coloro che riparano le ferite di infanzia, e invece le ferite d’infanzia le squarciano senza pietà. Si presentano come coloro che proteggono e abbracciano, ma in realtà stritolano e deturpano. E soprattutto non cambiano!
Una sopportazione passiva e rinuciataria porta con sé la cronicizzazione dei comportamenti aggressivi e soprattutto perpetua all’interno delle famiglia la legittimizzazione di comportamenti abusanti nei quali i figli possono pericolosamente identificarsi.
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