Una Pasqua senza Pasqua, senza nonni e con pochi vaccini. Genitori e bornout

Pasqua senza pasqua

È trascorso un anno e non è cambiato assolutamente nulla. La vaccinazione si avvicina e si allontana. Dalla chiusura totale e claustrofobica con autocertificazioni mutanti siamo passati a un’Italia dal colore cangiante, ma la nostra situazione emotiva non cambia. Non avremmo mai immaginato che diventare bianchi, il colore della luce e della speranza, ci avrebbe fatto sentire parte di un Eden.

È trascorso un anno e siamo ancora immobili, incatenati a un paludoso presente sprovvisto di futuro. Non possiamo fare progetti, acquistare un volo al volo, staccare la spina e trasferirsi per un po’ in quell’agriturismo in campagna che ci piace tanto, dove respirare a pieni polmoni aria e riposo.
La pandemia ha imposto una convivenza forzata con il proprio coniuge, o con la propria solitudine per chi un congiunto non ce l’ha, con il lavoro svolto da casa e con i propri figli (e per chi non li ha con l’assenza assordante di bambini per casa). Le coppie infertili in pandemia sono più infertili.
Tirano le somme della loro vita e delle loro culle vuote e buchi nel cuore.

Le case si sono trasformate in prigioni, nessun cielo in una stanza, ma tutto il mondo fuori. Da oltre un anno la nostra vita si è inasprita e depauperata di ogni distrazione e bellezza, per essere invece abbondantemente appesantita da ansie, privazioni, deprivazioni e angosce.
Quella zona franca che si chiama palestra, yoga (non online), riunione con i colleghi, pranzo con gli amici, domenica al parco, al cinema, al teatro, amori (non online), amanti, avventure, un tuffo al mare fuori porta, il concerto del nostro cantante preferito, spa e tanto altro non esiste più e il buio si è sostituito alla luce.
Le relazioni affettive, familiari e genitoriali sono le più compromesse.
La casa è abitata da rumore, dalla Dad, da umori variabili e contrastanti. Da scarsa intimità e da tanta angoscia.

Seguono come se fosse un mantra le solite frasi ridondanti: “lava le mani, leva le scarpe, metti la mascherina, non uscire, torna presto, e così via”. E la tensione aumenta. Per chi parla e per chi ascolta. I legami sono deteriorati e provati.
Il tempo da trascorrere con gli affetti diventa forzato, una sorta di arresti domiciliari emotivi; vira sempre di più verso un tempo di quantità piuttosto che di qualità, svuotato del tutto di capacità di cura e di accudimento. (Anche un genitore andrebbe accudito).
Le energie fisiche e psichiche sono ridotte al minimo sindacale e i genitori, soprattutto le mamme, sono usurati da tutto e depredati di ogni possibile ricarica energetica. Mancano le energie per svolgere i compiti quotidiani.

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Subentra una sorta di bizzarro meccanismo di difesa della psiche: un distacco emotivo nei confronti dei figli, pur di non sentire quell’angoscia, quello stress, quel magone: sordo e muto.
Un genitore si barcamena tra le cosa da fare, anzi, da dover fare e a volte smarrisce il suo sentire e volere più profondo.
Si sente spesso inadeguato perché irritato e irritabile, come se fare (anzi essere) il genitore dovesse rendere impermeabili alla fatica e allo scoramento.
Il genitore teme di non essere un buon genitore. Si percepisce inefficace, poco incline alla pazienza, incapace.
Condizione psichica che ha come conseguenza un umore ancora più variabile e deflesso, e un danno per l’autostima.
Ecco che il bornout prende corpo e, pian piano, contagia tutti i membri della famiglia-galera.

Spezzone di una consulenza

Sandra, i suoi due figli, i suoi due uomini, la sua solitudine

Sandra, nome di fantasia, è una mia paziente da anni. Ha due figli di cui uno che cammina appena, di soli due anni, e l’altra di anni quindici, avuta dalla precedente relazione, in piena tempesta ormonale e umorale, allergica alle regole e alle costrizioni. Entrambi con esigenze, problematiche e paure del cuore totalmente diverse. Il marito (il secondo) di Sandra lavora all’estero e lei è totalmente sola con i figli. La madre è morta di (per, con, poco importa) Covid e il padre è chiuso in casa in attesa della vaccinazione. Gli ex suoceri si disinteressano del tutto di lei e della nipote, diventata abbondantemente ribelle.
Sandra, pur di sopravvivere, ha deciso di continuare a mandare il piccolo all’asilo, vivendo nella paura costante che il bambino possa contagiarsi. La scuola sembra un carcere. Le classi sono state divise per evitare assembramenti e il piccolo ha smarrito il suo conpagno del cuore, con cui non può più dividere il panino al latte con la nutella. La sera, quando il bambino stenta a prendere sonno perché vorrebbe la mamma tutta per lui, l’altra figlia vorrebbe uscire e incontrare il fidanzato, che rischiando i decreti e il coprifuoco l’aspetta sotto casa anche per un solo bacio.
Sandra guarda la televisione per sapere cosa succederà domani, e sprofonda in uno stato di angoscia ancora più cupa.
I virologi, figura ormai di gran voga, danno informazioni contraddittorie che provocano sensazione di confusione e d’angoscia. Lei, come tante altre mamme, è stanca di vivere alla giornata.
Il bambino stenta a pendere sonno perché assorbe le tensioni di tutti, soprattutto quelle che circolano in casa. Inizia così i suoi soliti rituali e le sue solite monellerie.
Sandra diventa sempre più nervosa e stanca, vorrebbe video chiamare il marito per un po’ di conforto e di cura, anche se a distanza. Diventa aggressiva, grida, lo rimprovera e il bambino persevera con più insistenza. Avrebbe voglia di silenzio, di solitudine, di quel luogo intimo (sé stessa e i suoi pensieri) dove rintanarsi e magari incontrasi. Mi dice che trova pace soltanto da me, in studio. Il luogo dell’ascolto e della cura.
Ogni sera, in quella casa, esplode il caos. Il piccolo grida perché non vuole dormire, la grande grida perché vuole uscire. Gli organi interni della mia paziente gridano perché vorrebbero essere ascoltati.
Lei si sente in colpa, dice di sé stessa di non essere una buona madre, di essere un disastro di donna: due figli con due uomini diversi, una separazione, la non sopportazione dei suoi figli. E una rabbia in corpo senza precedenti.

Molti genitori hanno imparato l’arte della sopravvivenza: essere qui per essere anche lì: altrove.
In quel luogo fatto di viaggi già fatti o da fare, di viaggi da fermi, di ricordi ed emozioni ancora intense e vivide da accarezzare con la memoria che servono a schermarsi da così tanta realtà e poco sogno, in un eccesso di presente inzuppato da abbondanti quote d’angoscia e irritabilità.

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SOS sopravvivenza

La situazione pandemica riguarda tutti, non ci sono genitori immuni e altri no. Alcuni pazienti e altri intolleranti. Mese dopo mese nessuno di noi si è adattato a una condizione così ansiogena, ai telegiornali, alle beghe politiche, al vaccino si al vaccino no, alle primule e ai soldi buttati al vento. C’è chi ha chiuso la saracinesca della propria attività, probabilmente per sempre. C’è chi la tira su per poi riabbassarla per poi sperare di tirarla su in maniera definitiva. La condizione del vivere di tutti è diventata instabile e frustrante, all’insegna delle intemperie quotidiane da pandemia. La qualità di vita e degli affetti è decisamente compromessa.
Gli affetti, la genitorialità (e il desiderio di diventare genitori nel mare magnum delle incertezze) la sessualità ne hanno risentito profondamente.
Vediamo insieme come stringere i denti ancora per un po’ e cercare di non impazzire del tutto.

  1. Darsi il permesso.
    Darsi il permesso è una delle cose più complicate da poter attuare. Molte persone sono state cresciute a pane sensi di colpa, a pane e senso del dovere; quindi, darsi il permesso di oziare, di leggere un libro, di non fare nulla, o anche di arrabbiarsi diventa un’acrobazia del vivere.
    Ascoltarsi però in questa fase pandemica diventa assolutamente indispensabile per sopravvivere.
  2. Essere presenti a sé stessi.
    Diventa importante essere pienamente concentrati su sé stessi, anche per un lasso di tempo ridotto ma assolutamente personale. Senza cose da fare, da dover fare, a cui pensare, o da cui farsi distrarre e strapazzare.
    C’è un momento – la sera, dopo pranzo, nel bel mezzo del pomeriggio – in cui si fa qualcosa per sé, senza viverlo come un momento egoistico ma assolutamente indispensabile. Se un partner o un genitore sta bene, trasmettere questo benessere al figlio e al coniuge. Perché prima di essere genitore, marito, moglie o compagno è un essere umano. Un malessere individuale diventa un malessere che ricade su tutti.
  3. Chiedere aiuto.
    Mai come in questo periodo abbiamo tutti bisogno di aiuto. L’aiuto può essere inteso come un piatto caldo preparato da un partner che rincasa prima, un bambino che rimane a casa dei vicini quando non si sa a chi poter chiedere aiuto, poter dormire qualche ora in più al mattino o andare presto a letto la sera, o entrambe le cose se se ne sente la necessità; insomma ascoltarsi.
    Nei casi estremi in cui il malessere diventa ingravescente l’aiuto viene rappresentato dal professionista. Il clinico può essere facilmente reperito di una struttura pubblica oppure privatamente, in funzione delle proprie esigenze e necessità e possibilità economiche.Trascurare un malessere significa farlo diventare cronico.
    Il rischio maggiore è che un genitore o entrambi possano sviluppare uno stato ansioso e depressivo, delle vere e proprie psicopatologie.
  4. Uno sguardo alla propria coppia.
    Un altro rischio è che in situazioni protratte di stress aumenti la conflittualità di coppia e diminuisca la dimensione dello scambio, del gioco, della sessualità; e quindi le situazioni relazionali già zoppicanti possano precipitare in un baratro chiamato crisi che porta poi, inevitabilmente, a una separazione.
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Alla fine, forse, abbiamo capito che stare in casa è bello e rassicurante quando però puoi decidere di non farlo.

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