Le vostre storie, le mie parole. Ho raccontato, romanzandolo, un caso clinico. La storia di una donna non amata e abbandonata, che dopo la separazione incontra l’amore, ma la figlia non accetta nessuno nella loro vita.
Così lo chiamava mia figlia: lo sconosciuto. E così lo trattava. In realtà, si chiamava Maurizio (nome di fantasia) ed era il mio compagno di vita. Il mio riscatto emotivo. La mia riparazione dalle ferite della vita. Il mio risarcimento. Il balsamo per il mio cuore infranto, e pensavo mai più riparato.
Ma per Alice (nome di fantasia) lui era lo sconosciuto, così lo chiamava e così lo trattava.
Per lei era invisibile. Anzi, sin troppo visibile da sembrare inopportuno, fuori posto, un imbucato in una vita non sua. Lo maltrattava con il linguaggio muto del silenzio. Lo attraversava con lo sguardo. Gli rispondeva a monosillabi. E nonostante fosse ancora una bambina, si comportava come un’adulta scaltra e navigata. Non si faceva sedurre o irretire dalle attenzioni, dai dolci o dai regali che non accettava. E non ricambiava con le parole che non usava. Lo scansava come se fosse un untore di sciagure e guai. Cambiava stanza quando Maurizio era in casa con noi; non condivideva con lui nemmeno un istante, un pasto o un divano. Lo faceva sentire un appestato.
E ci riusciva benissimo.
Aveva sposato la sua crociata: avermi soltanto per lei e spodestare lo sconosciuto.
Con Alice, sin dai suoi primi giorni di vita nella mia vita, siamo state in perfetta simbiosi. Quando abitava il mio utero, non avrei voluto che nascesse. Lo so, sembra assurdo, ma dentro di me, nel mio ventre, era al sicuro; potevo proteggerla dalle intemperie del mondo, dall’infelicità, dal buio, dalla vita.
Quando è nata, la mia vita da donna fragile e non amata si è tinta di rosa, di rosso, di mille sfumature di tutti i colori possibili e immaginabili. Avevo lasciato per sempre il buio, il bianco e nero della mia esistenza binaria (poco amata, non amata) e invisibile, ed ero diventata madre. La mamma di Alice, la mia bambina.
Ero viva, avevo la vita in grembo, addosso e per sempre con me. Alice era il mio tutto, e nell’essere tutto si era presa tutto, anche la mia libertà e forse il mio matrimonio.
Ma a me stava bene così, e pensavo che stesse bene così anche a suo padre che non era uno sconosciuto ma l’uomo della mia e sua vita. Era talmente piccola e indifesa, con quei suoi occhioni grandi e liquorosi che ci trafiggevano il cuore che era diventata il fulcro della nostra esistenza, il nostro premio. Il nostro presente e futuro, il senso della nostra esistenza. Il mio dono per lui, il suo dono per me. La notte era una magia, almeno per me.
Dormivamo insieme abbracciate (suo padre volutamente sul divano perché non amava svegliarsi di notte), i suoi piedini freddi, caldi, affettuosi o impauriti, si intrufolavano tra le mie gambe o sotto la mia schiena, e il nostro incastro perfetto ci transitava nel sonno più profondo.
Alice è cresciuta nutrita da un’overdose d’amore continuativa, la mia, mentre suo padre a un certo punto (nemmeno troppo in là della vita di Alice), più esattamente quando la bambina ha compiuto due anni, è andato via di casa e per sempre, per una donna molto più giovane di lui e di me, e non si è mai più voltato indietro. Sono rimasta attonita e squarciata dal dolore e dall’abbandono.
Ma io avevo lei, la mia bambina, la mia luce, la mia regione d’esistere.
Piangevo di notte quando Alice dormiva, o quando era all’asilo. Sono dimagrita tanto, e il mio colorito era diventato giallo limone o meglio giallo travaso di bile.
Sono passati gli anni e il dolore si è sbiadito senza lasciarmi mai da sola del tutto. Era lì immobile, talvolta meno rumoroso altre volte intenso e assordante da non lasciarmi nemmeno respirare. Alice è diventata una bambina sin troppo adulta per la sua età, ma non ho saputo fare di meglio. La sua infanzia era diventata un luogo scomodo da abitare per entrambe. Inzuppata di ricordi e di solitudine. Di lacrime e di passeggiate al parco da sole: lei e io, e l’assenza di suo padre che era diventata presenza e dolore. Abbiamo fatto in fretta e siamo diventate più grandi. Lei adulta ma ancora bambina, e io quarantenne ma vecchia e marcia dentro.
A un certo punto quando la vita non ti sorride più da un bel pò, ecco che decide di farti un regalo. Appare dal nulla Maurizio, un ingegnere premuroso e affettuoso che mi aiuta a fare un progetto per la mia casa in campagna. Dopo anni di nulla avevo deciso di riadattare la mia vecchia casa di campana e di farla diventare una fattoria didattica.
Alice e io amavamo gli animali e avevamo pensato di farla diventare una vera e propria attività scalda-cuore con l’aiuto della mia algida madre.
Il legame con Maurizio non tardò ad arrivare. Lui c’era, e c’era sempre. La sua dolcezza inaspettata mi scaldava il cuore, e grazie a lui mi sono accorta di avere ancora un cuore. Ero ancora una donna visibile e vista. Accudita e anche corteggiata. Nei mesi, quando Alice era a scuola, andavamo in campagna, tra una tegola e una capra – le prime abitanti della fattoria didattica – nasceva il nostro amore.
La mia veccia casa in campagna, come per magia, era diventata una reggia. Tutto quel legno e quella cura, quella pietra e quel legame che odorava di indissolubilità, le tegole di mia nonna riadattate e rese belle e importanti. Tutto quel riparare e accudire aveva riparato e accudito anche me. Le mie ferite, i miei squarci.
La capretta preferita di Alice si chiamava Nanà, l’aspettava ogni giorno quando usciva da scuola e sembrava scodinzolare festosa quando andavamo a trovarla. Alice, in una prima fase della nostra nuova vita, aveva ben gradito Maurizio. Non era ancora uno sconosciuto, ma era colui che ci stava aiutando a costruire una casa per Nanà e le sue sorelle. La vita in campagna scorreva serena e aveva per la prima volta delle pennellate di allegria. Le capre con il loro vociare, i nostri cani, e con tutte quelle meravigliose zampe niente e nessuno poteva farci più del male.
E poi, adesso, c’era anche Maurizio nelle nostre vite.
Fine prima parte.
P.S: Cari lettori del mio sito, non voglio essere prolissa anche se scriverei senza fine, ma per oggi mi fermo qui. A breve vi racconterò la seconda parte, e se vi va anche la terza e la quarta di Alice, le sue paure e le sue capre. Con affetto e simpatia, a presto.
Valeria Randone
Maurizio, lo sconosciuto, Alice e Nanà, la capra. Parte seconda
Era proprio Maurizio che nelle nostre vite scaldava il mio cuore ma pietrificava il cuore di Alice. Nonostante ciò dovevo prendere una decisione: andare a vivere in campagna, per realizzare il mio sogno. Ci trasferimmo in campagna circondati dal verde e abbracciati dal colore ondivago del cielo. Avevamo traferito la nostra solitudine in quella casa che odorava di rosmarino e di riparazione. Finalmente non ero più sola, avevo un compagno di vita, di lenzuola e un uomo con cui crescere una figlia sprovvista di padre, di nonno e di una possibile figura paterna di riferimento. Amavo svegliarmi di buonora, spalancavo la porta di legno massiccio color cioccolato e scalza mi attardavo in giardino. L’odore della terra ancora bagnata mi inebriava più della moca. Le capre venivano festaiole a salutarmi aspettando che Alice si svegliasse e le coccolasse a dovere.
I rituali erano diventati un caldo abbraccio dove nessuno abbandonava più nessun altro e dove finalmente il mio cuore aveva trovato riparo e ristoro. Maurizio era presente, anzi presentissimo. Era fattivo e mai cattivo (nonostante le mie intemperanze non aveva nessuna nota di cattiveria che mi potesse ricordare il padre di mia figlia). Si occupava della casa, degli zoccoletti divelti dall’umidità, aveva una cura contagiosa per tutto ciò che lo circondava: persone, animali e cose.
Mi rendeva felice e sicura: era felice nel rendermi felice. Nonostante ciò, mia figlia lo chiamava lo sconosciuto e continuava a ignorarlo. Lui era paziente ma sofferente: ingoiava i bocconi amari, sempre più amari, senza storcere nemmeno la punta del naso, senza emettere un sibilo, senza corrugare la fronte in espressioni loquaci. Stava zitto, sorrideva e accudiva, con il linguaggio muto dell’amore.
Un bel giorno qualcosa d’improvviso cambiò.
Alice andava a scuola, era maggio e rimanevano da vivere e attraversare gli ultimi giorni di scuola, io rimanevo a lavorare da casa, e Maurizio andava in studio per rincasare la sera. Sembravano una famiglia, una di quelle vere. Quella mattina c’era qualcosa di strano nell’aria, il tempo era uggioso, non lasciava presagire niente di buono. Le capre capitanate da Nanà erano inquiete. Vagavano senza sosta e senza pace, rendendo nervosa anche me, e per di più senza motivo alcuno.
Una delle caprette era in procinto di dare alla luce i suoi piccoli, così ho immaginato che il nervosismo contagioso fosse per l’imminente parto. Sono andata indietro con la memoria, e pur essendo umana anche io ero molto nervosa quando stava per venite al mondo Alice; il mio raggio di luce dopo tanto buio.
Sono andata a controllare, ma non c’erano tracce di doglie o cenni di un possibile parto alle porte. La capra, Nanà, era tranquilla e dormiente, e come aveva preannunciato il veterinario, soprannominato da mia figlia il pediatra, mancavano ancora ben sette giorni per poter vedere la nuova vita.
Quando a un certo punto successe quello che mi sembrava essere l’irreparabile.
Fine seconda parte.
2 Commenti. Nuovo commento
Sarebbe interessante conoscere la fine di questa storia.
Buongiorno,
prima o poi la completo. Per adesso la ho nel cuore, a breve passerà alla mia penna.
Un cordiale saluto