La guerra spiegata, anzi impossibile da spiegare, ai bambini

La guerra spiegata ai bambini

Come si fa a spiegare la guerra a un bambino? come si fa a raccontare una fiaba dell’orrore? come si fa a spiegare a un bambino che la sua casa non esiste più, che i suoi giochi, il suo letto, la sua cucina e le sue certezze non esistono più? come si fa a dire a un bambino che suo padre non andrà più a prenderlo a scuola e che è andato in guerra, al fronte, con un mitra in mano, e che probabilmente non tornerà mai più? come si fa a spiegare a un bambino che la sua scuola non esiste più?
Quel luogo fatto di certezze e di carezze, di libri che profumano di carta e delle sue prime parole scritte, quel luogo di ricreazione e merende non esiste più. E lui non potrà più recarsi lì, ogni mattina. Non potrà più incontrare i suoi compagni e il suo amico del cuore.
E come si fa a spiegare a un bambino orfano, già punito dalla vita, che non ha più nessuno che si occupi di lui, che il suo orfanotrofio diventato famiglia in attesa di una famiglia vera non esiste più. Che una bomba lo ha portato via. Che le sue poche cose, i suoi oggetti transizionali – quei giochi, maglie, felpe, copertine – che lo aiutavano a non avere paura, a prendere sonno, a superare gli incubi e l’abbandono non esistono più. (Nello sviluppo infantile, un oggetto transizionale è un qualcosa, solitamente un oggetto o un gioco, che regala conforto psicologico al bambino in crescita, sostituendo progressivamente il legame simbiotico che ha con la madre).
Come gli si dice che adesso non ha più né persone né oggetti a fargli compagnia, e il suo futuro è un gigantesco punto interrogativo. Più di prima, più di sempre.
E come si fa a rincuorare una madre che ha cresciuto due o tre figli maschi che sperava di consegnarli alla vita e all’amore e invece li ha consegnati alla guerra? come si fa a dirle che tutto andrà bene? che torneranno? e se torneranno, quali traumi e ferite nel cuore e nel corpo avranno?

Qualunque sia la causa, questa mostruosa guerra non è sensata

Una madre, una zia, un parente superstite sta già abbastanza male: ha perso un fratello, un marito, un nipote. Ha il cuore infranto, non ha più lacrime e nemmeno speranza. La vita che continua è in quel bambino. In quel cucciolo d’uomo che ha perso tutto: presente e affetti.
Dicono, e lo penso anche io ma non in questo caso assurdo, che trovare le parole giuste allevi il dolore, ma esistono parole mute che straziano e che oltrepassano ogni parola giusta, ogni silenzio. I bambini sentono tutto, anche quando non ascoltano o sembrano non ascoltare. Hanno orecchie dappertutto, hanno pori dilatati, hanno i super poteri. A loro non sfugge niente.
E se non comprendono quello che vedono e sentono sul momento, conservano il ricordo per dopo, quando avranno gli strumenti cognitivi ed emotivi per tornare indietro con la memoria lì, in quel luogo del passato, al trauma subito.

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Qualche piccolo suggerimento: creare uno spazio per l’ascolto e per il dialogo continuo

Nonostante sia una situazione drammatica e profondamente dolorosa e sembri che nessuna strategia possa lenire il dolore, esistono delle piccole cose da poter fare con i nostri figli per cercare di rendere un po’ meno drammatica questa situazione.
Una cosa da dover fare è parlare. Parlarne sempre. L’ascolto, nonostante il dolore dei genitori o dei sopravvissuti, deve essere sempre continuo e deve essere fatto di orecchie e di cuore. Il linguaggio da adoperare dovrebbe essere modulato in funzione dell’età del bambino e delle domande che pone. Sarebbe opportuno proteggerlo da un eccesso di verità, dalle immagini spietate, dai testi giornalistici che raccontano i fatti in maniera veritiera e cruda.

Cos’è la guerra, mamma?

Se chiedono che cos’è la guerra, si può provare a spiegare che è un modo sbagliato, immaturo e inutile di risolvere i conflitti.
Toccherà a noi adulti parlare della morte che la guerra porta con sé, e del dopo. Chi ha la fortuna di avere fede può parlare di Dio, chi è ateo parlerà di altro.
Si può dire a un bambino che quando non si parla e non si affrontano i problemi, si arriva allo scontro. Che si tratti di adulti, di politici, di bambini, di nazioni.
Si può spiegare loro che le reazioni alla mancanza di dialogo sono tante, tra cui la guerra. Purtroppo.
Ai bambini più grandi si può tentare di dare una spiegazione, la più semplice possibile, di quello che sta accadendo – se mai esistesse una spiegazione -, parlando di litigi tra adulti e nazioni, di rabbia mal gestita, di desiderio di potere, di scarso controllo degli impulsi, e di altro di concreto.
Ai bambini più piccoli non si può dire tutto, ma nemmeno omettere tutto.
Bisognerebbe trovare, a seconda della maturità, fragilità, emotività e curiosità del bambino, le parole giuste  per proteggere il suo cuore dal male.
Sarebbe utile rassicurare i bambini di ogni età su quello che vedono e su quello che chiedono. Se dovessero avere paura bisogna spiegargli che è normale averla, se gli dovesse venire voglia di piangere perché ci sono delle scene strazianti in televisione, bisogna aiutarli a piangere e non a trattenere le lacrime; se si sentono angosciati o insonni bisogna ascoltarli e consolarli e mai rimproverarli. Senza mai minimizzare le loro emozioni o capricci stress-correlato.

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L’abbraccio della famiglia

Anche la guerra e l’angoscia che questa porta con sé, è un momento di incontro familiare. In tutti i paesi del mondo, in questo momento, siamo tutti molto preoccupati e profondamente addolorati per quello che sta succedendo. La sera, davanti alla televisione, può diventare un momento opportuno per dialogare tutti insieme e stringerci forte con le parole per spiegare ai nostri figli l’importanza dell’accoglienza, della pace e della beneficenza.
Insieme ai bambini si possono preparare delle scatole dove mettere dei medicinali, dei vestiti, dei doni o dei peluche per coloro che non hanno più niente. Si può insegnare ai nostri figli a stare accanto alle persone bisognose pur essendo lontani dal punto di vista geografico, e che la vicinanza di cuore non ha nulla a che vedere con la distanza dei corpi.

Spezzone di una consulenza

La storia di Emma che sogna le bombe

Emma ha cinque anni, è la figlia minore di una mia paziente. Quando è scoppiata la guerra, la mamma di Emma si trovava in Francia per lavoro e il clima emotivo di grande apprensione che si è creato in casa e di grande preoccupazione ha fatto precipitare Emma in un profondissimo sconforto. Emma ha chiesto alla nonna se la Francia fosse vicina alla guerra, se la Russia potesse bombardare la Francia e la mamma, e la nonna l’ha prontamente rassicurata sulla distanza geografica tra i due paesi. Le ha detto anche che la madre era già in volo e che sarebbe rincasata prestissimo per abbracciarla.
Emma ha iniziato ad avere degli incubi violentissimi. Tutte le notti, alla stessa ora, Emma iniziava a gridare e a cercare la madre. Si svegliava piangente, sudata e ansimante. Scappava nel letto della madre per assicurarsi che fosse viva. Gli incubi durano immodificati da una settimana circa, amplificati e rinforzati dalla visione quotidiana del telegiornale. La famiglia di Emma, tutte le sere accende la televisione e durante la cena i genitori hanno l’abitudine di guardarla tutti insieme, commentando le scene di guerra.
La bambina è traumatizzata, ed è terrorizzata dalla possibile morte della madre, figura di riferimento affettivo a cui è profondamente legata, con cui ha un legame ancora più simbiotico da quando lei e la madre hanno avuto il covid e sono rimaste in quarantena, chiuse in camera per quindici giorni.
Sto lavorando con la madre affinché possa aiutare Emma a superare questi mostri, in attesa che questa maledetta guerra si concluda.

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