La fatica da zoom: dal corpo alla mancanza del corpo

Fatica da Zoom

Si chiama fatica da Zoom o sindrome da stanchezza psicologica. Accompagna le nostre giornate da quasi un anno, da quando abbiamo lasciato fuori da noi il mondo esterno e, causa forza maggiore, ci siamo trincerati dietro e dentro uno schermo.
È un misto di stanchezza mentale e fisica, di confusione e spossatezza.

Le videochiamate hanno sostituito gli incontri reali. I pazienti dentro il computer hanno preso il posto di quelli in carne ossa. I sorrisi, le lacrime e il fluire delle emozioni è stato sostituito dalla freddezza di uno schermo piatto. Il tutto associato all’estrema fatica che noi clinici facciamo per decodificare, interpretare e sintonizzarci con l’inconscio dei nostri pazienti quando ci troviamo dell’altra parte di un computer.

L’ho provata anche io che sono sempre stata contraria alle consulenza online perché mi sembrava che togliessero valore alla magia di un incontro. Ho sempre preferito lavorare con il paziente o la coppia de visu, con il rischio di dovermi alzare alle cinque del mattino per prendere il primo volo della mattina per tentare di ottimizzare e dilatare la mia giornata; ma adesso mi sono accorta che queste nuove piattaforme accorciano le distanze e consentono di lavorare senza rischiare di venire contagiati e di perdere troppo tempo per gli spostamenti.
In una prima fase mi sentivo inadeguata, non capivo. Ero in casa o nel mio studio, talvolta in compagnia dei miei amati cani, il profumo di una tisana calda e i miei affezionati pazienti.
Ma nonostante ciò qualcosa non andava per il verso giusto.
Dopo aver completato le consulenze online mi sentivo stravolta, affaticata, spossata; per niente immune a questa nuova forma di usura psico-fisica.

Dal gettone allo smart working

Ricordo con nostalgica emozione il tempo del gettone. Quando avevamo uno o più gettoni e dovevamo utilizzarli per dire le cose essenziali a chi ci ascoltava dall’altra parte del telefono. Era il tempo dell’attesa: quando si aspettava in casa una telefonata importante, quando dovevamo rincasare perché qualcuno ci avrebbe chiamato. Il resto del tempo era nostro, solo nostro, eravamo beatamente irraggiungibili. Eravamo uomini liberi.

Oggi la tecnologia permette di connetterci dappertutto: in vacanza, al mare, in montagna, in barca. Siamo sempre connessi. Così, se da un lato abbiamo la possibilità di essere raggiunti e di raggiungere in qualunque momento, di lavorare ad oltranza, di stare in contatto con le persone emotivamente care, dall’altro andiamo incontro ad un’usura emozionale continua. Entriamo e usciamo nervosamente dalle email, dalle app, dai social. Controlliamo la posta mentre parliamo al telefono. Rispondiamo a una email mentre facciamo altro (Non ho ancora capito se è un bene o un male).
Pranziamo con il cellulare, talvolta ci dormiamo anche.

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Il covid, senza preavviso, da una dimensione di vita online, marcatamente differenziata da quella off-line, ci ha catapultati in una nuova dimensione detta “onlife”: una continua interazione tra realtà e vita online, un continuum pericolosamente indifferenziato.
Il tutto non è avvenuto in maniera graduale, ma all’improvviso, senza darci la possibilità di adattarci. Come tutti i cambiamenti lapidari, anche questo non è stato immune da rischi.
Uno degli effetti di questi bagno di modernità è la fatica da Zoom.
Zoom è quello strumento che consente di lavorare in smart working e di effettuare le teleconferenze, esattamente come Skype e altri strumenti informatici.

Vicini di mente, lontani di corpo

Quando ci incontriamo con altre persone, per piacere, per amore, per lavoro, l’incontro è dato dalla fisicità e dalle parole, dalla prossemica – il modo di occupare lo spazio -, dai silenzi e dalla giusta distanza dal mondo dell’altro.
Siamo sincroni, proviamo una sintonia tra mente e corpo che non ci espone alla fatica. Il linguaggio non verbale amplifica quello verbale (a volte entra in conflitto con quello verbale e parla al posto nostro), ci orienta nella comunicazione e nell’altro. Ci rendiamo subito conto se il nostro interlocutore, amico, amante o collega è triste o felice. Se è distratto o emotivamente distante o altrove. Se è contento di stare con noi o non vede l’ora di andar via. Se ha le mani sudate (quando potevamo stringere una mano!) o il cuore in gola. Le sue emozioni diventano le nostre, e le nostre le sue.

Durante un incontro lavorativo di gruppo, per esempio, siamo propensi a guardarci e ad ascoltarci, a leggere il non verbale e la postura dei partecipanti, le micro espressioni del viso, la prossemica, il modo di occupare lo spazio che ci contiene.
La nostra mente e il nostro cuore sono costretti a concentrarsi sull’ascolto delle frasi delle persone che ci stanno accanto e sulla visione dei comportamenti.
Può instaurarsi un clima di empatia o di antipatia, di fiducia o di evitamento, di avvicinamento o di fuga, può esserci profumo di alleanza o cattivo odore di astio.
Il tutto è sempre alla facile lettura.

Quando ci connettiamo tramite le nuove piattaforme andiamo incontro ad una serie di inciampi. La linea internet è intermittente o sovraffollata, l’audio si ferma e il volto di chi abbiamo nel monitor continua a parlare, il volto rimane paralizzato e l’audio va avanti in maniera asincrona rispetto alle espressioni facciali. Un messaggio o una email che arrivano all’improvviso interrompono o disturbano la connessione, un figlio che appare all’improvviso, e così via.

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Queste distorsioni possono farci percepire gli altri in maniera diversa, possono disturbare la conversazione e la concentrazione, e possono creare una sorta di intralcio dell’empatia.

Gioie e dolori della modernità

Questo salto nel futuro non è stata una scelta, ma siamo stati obbligati e per di più all’improvviso, pena la possibilità di essere tagliati fuori da tutto. Sappiamo bene che le uniche modalità per rimanere in contatto con chi amiamo, con i nonni e con i colleghi di lavoro sono quelle virtuali, ma non sempre sono nostre amiche.
Così Zoom, Skype, le video chiamate di whatsapp diventano uno strumento-tormento con il quale abbiamo instaurato un rapporto di profonda ambivalenza: da un lato sono diventati indispensabili, dall’altro ne faremmo volentieri a meno o li avremmo utilizzati in maniera saltuaria, facoltativa, ludica.

Un altro aspetto da non sottovalutare, oltre al periodo di grande stress da pandemia, è il rapporto con la nostra immagine: il dover apparire sempre più o meno presentabili. Chi non fa l’influencer per professione non si sente a proprio agio dentro uno schermo, e prova imbarazzo misto a pudore nel dove lavorare in una modalità che espone così tanto l’immagine corporea. Lo schermo, inoltre, restituisce in modo schietto e spesso impietoso anche l’immagine di chi parla, non solo di chi ascolta o sta dall’altra parte del monitor.
Diventiamo vicini di schermo, forse sin troppo vicini.
Il disagio e la scarsa spontaneità, per finire, possono prendere il posto dell’empatia e della fluidità del legame (che sia amoroso o lavorativo).

Esiste qualche strategia per sopravvivere a così tanto web

  • Evitare il multitasking, passare da una cosa a un’altra o pretendere di farle simultaneamente aumenta l’usura psichica.
  • Stabilire e differenziare le ore di lavoro dalle ore di disintossicazione digitale.
  • Alternare la lettura di un libro, preferibilmente di carta, a una passeggiata, una chiacchierata con un familiare, una carezza al cane, una passeggiata all’aria aperta.
  • Ovviamente senza cellulare.
Spezzone di una consulenza

Anna, online per amore

Anna mi consulta in piena pandemia, aveva il cuore totalmente infranto da un amore ingarbugliato. La coesistenza nella sua vita e nel suo cuore di marito eccessivamente presente, che aveva smesso di di amare, e un amante eccessivamente lontano che continuava ad amare. Riusciamo ad effettuare la prima consultazione tramite video chiamata con Skype. Anna non ha un luogo dove stare e mi propone di vederci in macchina. Abitualmente non è mia consuetudine assecondare queste richieste bizzarre, perché pur trattandosi si una consulenza online, quindi fattibile in ogni luogo, deve sempre essere tutelata dal massimo della privacy.
Anna insiste, chiama, richiama. Mi partecipa pensieri suicidari e mi dice di non riuscire ad occuparsi dei suoi figli perché in preda alla disperazione più totale.
Decido di accettare. Anna si allontana da casa con la scusa di andare a fare la spesa e parcheggia la sua auto tra gli alberi, in una stradina vicino casa sua. Effettuiamo la consulenza in auto. In realtà, in quel momento così drammatico della sua esistenza quell’auto era diventato il mio studio. Il suo tutto, per cercare di ricominciare a leggersi dentro, di fare chiarezza per non soffrire e far soffrire nessuno così tanto.
Iniziamo le sedute online, sempre in auto, e stabiliamo di incontrarci ogni quindici giorni, per non destare troppi sospetti in casa.
La relazione con il marito è giunta alla fine, e Anna, per amore dei figli, preferisce rimanere ancora dentro un matrimonio senza passione finché la pandemia non si sarà conclusa. Adesso Anna mi ha raggiunta in studio, felice di esserci e felice di poter essere accolta da quattro mura, da poltrone comode, le nostre tisane, la nostra fisicità, e i nostri sorrisi empatici.
Stiamo cercando di fare ordine all’interno del suo disordine emotivo, cercando di imparare a conoscere le trappole del suo inconscio.
La strada non sarà breve, perché Anna continua ad essere dilaniata dei sensi di colpa e non riesce a scegliere tra l’amante che professa di amare e il marito al quale continua a voler bene, ma siamo certamente in cammino.

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C’è un altro aspetto da dover analizzare: quando il pauserete ha paura o non è motivato alla cura. Cerca la scorciatoia, chiama soltanto perché la moglie, madre, marito, lo ha costretto a contattarmi. E chiede espressamente una consulenza online o addirittura telefonica – che io non faccio – pur abitando a Milano o Catania, quindi a due passi dai miei studi. Lo fa perché pensa che online non sia cura, che online sia gratis o quasi. Non sa, in realtà, che online è più faticoso per entrambi. Per me che devo fare il doppio dello sforzo e per lui che dovrebbe occuparsi della stanza della terapia, che non equivale alla macchina parcheggiata sotto casa.

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