Quando finisce un amore si appende il cuore al chiodo, esattamente come le scarpette di danza di quando eravamo piccole. Per prudenza, per un eccesso di paura, finanche per evitare delusioni postume.
Si aspetta, si spera, si investe a intermittenza, e si rimane inermi e inerti ad aspettare che qualcosa cambi nella speranza inconscia che tutto rimanga immobile (i cambiamenti spaventano, anche se sono positivi).
La mappa del cuore è complessa, non basta un semaforo, uno stop o una rotonda per portarci in salvo o per condurci dove avevamo pensato di giungere.
Ci sono vicoli bui, strade senza sbocco e inversioni a U, le più pericolose.
Gli amori, inoltre, non sono mai tutti uguali: alcuni sono più semplici da vivere, altri più controversi, altri ancora da evitare come la peste.
Ci sono amori che creano spazi, anzi voragini, e amori che questi spazi li riempiono.
Amori che accudiscono e amori che devastano. Amori che curano e restituiscono alla vita, e amori che la vita la rubano. Alcuni spalancano le finestre dell’anima e fanno entrare gioia, aria ed energia, altri invece che si preoccupano solo di tenersi al riparo dalle intemperie.
Senza rischi, senza slanci e senza progetto alcuno. Gli amori, che amori non sono, prudenti.
Quando nasce un amore. Quando muore un amore
Quando nasce un amore, una cecità transitoria acceca i protagonisti di quell’amore, regalando un bagno di emozioni che in situazioni di lucidità mentale non si proverebbero.
Le proibizioni e l’idealità (a scapito dell’esame di realtà) aiutano a fare divampare il sacro fuoco della passione, a tenerlo acceso il più possibile, a lottare per realizzare il progetto amoroso.
Può capitare che un amore, durante il suo cammino impervio, si schianti contro un muro chiamato fine, così, uno dei due protagonisti del legame – solitamente il più sofferente e al contempo il più consapevole – effettua un dolorosissimo bilancio tra costi e benefici psichici.
Gli investimenti a vuoto diventano un salasso di energie psichiche e non possono essere attuati a lungo. Esiste un momento, che chiamerei punto zero, che i sofferenti per amore conoscono bene. A volte si avvicinano, altre volte si allontanano, ma quando la sofferenza diventa maggiore della capacità di sopportazione lo ascoltano. Si fermano. Fanno un dolorò bilancio e decidono di salvarsi la vita piuttosto che la loro coppia.
Quando un amore nuoce gravemente alla salute, i segnali ci sono tutti sin da subito, sono visibili agli occhi ma invisibili al cuore.
Le scelte del cuore, talvolta, fanno a pugni con le scelte della ragione. Non è possibile vivere a pieni polmoni un amore che cammina in bilico tra le linee guida della ragione e gli strattoni del cuore. Esiste un confine sottile tra estasi e catastrofe che prima o poi si infrange e nessuna manipolazione o seduzione può riuscire a trattenere il partner sofferente all’interno del legame ammalato.
Quando un amore diventa l’esecutore di un sogno e al tempo stesso di una condanna, accompagnarlo dolcemente alla morte significa salvare sé stessi. Ogni tanto, un amore muore.
Tra passato e futuro. Il capolinea di un amore
Nonostante gli impegni profusi e gli investimenti emotivi, talvolta, gli amori giungono al capolinea. Dolorosamente (e non sempre perché fa capolino un nuovo amore).
Il capolinea è un luogo simbolico davvero trafficato. Il capolinea del sentimento, della pazienza e del coinvolgimento. Il capolinea dell’intimità e della passione, del tempo condiviso e dei verbi coniugati al futuro. A ogni capolinea ci sarà un pezzetto di lutto da dover elaborare, e unitamente a ogni fine ci sarà, prima o poi, un nuovo inizio.
Non tutti i legami appartengono all’Olimpo dell’eternità.
Può capitare che il quotidiano con le sue amarezze e bassezze, con la sua polvere erosiva del tempo che passa, con i tradimenti e gli scarsi investimenti, facciano precipitare la coppia dall’Eden della passione agli inferi dell’infelicità. Irreversibilmente.
Chi ha sofferto per amore – le storie di vita dei miei pazienti lo confermano – è spaventato e diffidente, teme di trovare nuovamente sul suo cammino una nuova truffa amorosa o una trappola e spesso glissa e scappa.
Non dimenticare le sofferenze subite è una scusa per non amare più.
Quando il dolore tracima gli argini della sopportazione il protagonista di un amore sofferente giunge a quel punto, direi magico, di ribellione, di bel vedere dell’anima, che amo chiamare punto di non ritorno e ricomincia a sperare di essere ancora felice e anche ad amare.
Un bel giorno, dopo tanta introspezione e riflessione, i protagonisti di così tanta sofferenza tirano le somme e ripartono.
Quando una coppia si avvia verso la fine dei suoi giorni, avvengono parecchi cambiamenti, che se non decodificati in tempo, diventano inarrestabili. Dall’alluvione di emozioni si passa al deserto emotivo.
Dalle parole al silenzio. Dal cuore scaldato dall’intimità e dal progetto all’esilio emotivo.
La coppia viene fagocitata da una ragnatela di dilemmi, entra in confusione, non sa bene che strada intraprendere, se quella della distruzione o quella, decisamente più faticosa, della ricostruzione.
Questo e tanto altro succede quando si appende il cuore al chiodo dopo la fine di un amore.
7 Commenti. Nuovo commento
Ottimo
Buonasera Dottoressa.
La seguo da tempo, mi piace il suo modo di porre le questioni in modo diretto e senza mezzi termini.
Faccio questo preambolo perchè è una differenza non da poco.
Da un anno e mezzo sono in contatto con suoi colleghi che adottano percorsi diversi ogni volta, purtroppo spesso un pò lenti rispetto alla sofferenza con la quale si richiede aiuto.
Le scrivo in risposta al suo articolo, proprio perchè ho trovato, ancora una volta, una chiarezza estrema nell’esporre situazioni che molti di noi si trovano a vivere, per le quali regna sovrana la stanchezza e la confusione e si cerca invano di capire “cos’è davvero questo mostro, cosa ci sta accadendo”.
Ho 56 anni, alcuni mi dicono portati troppo bene da non mostrarli, sono un creativo per mestiere e musicista per passione “quasi” mestiere. Conosco mia moglie da 35 anni, tra fidanzamento e matrimonio; abbiamo trascorso una vita insieme, cresciuto due splendidi figli ricchi di valore, ci siamo sostenuti in mille vicissitudini economiche e finanziarie, ci siamo lasciati i rispettivi spazi che contenevano le nostre personalità diverse ma complementari, ma non ci siamo accorti – presi da tutto il resto – di non esserci più amati.
Le prime avvisaglie ci sono state sedici anni fa, dopo la nascita del secondo figlio, nella quale sono confluite le difficoltà emerse già con il primo relative al cambiamento di ruoli e di aspettative.
Io ho messo il piede fuori dal selciato, ho avuto una relazione con una donna per un anno; dopo essere stato scoperto abbiamo deciso di investire nuovamente su di noi, che il nostro era un rapporto intriso di tane belle cose fatte insieme e tante altre da fare, con i figli da crescere.
Avrei dovuto capire già li che il mio matrimonio era zoppo, un anno di relazione, per quanto non pareggiabile con un avita quotidiana vera e propria, voleva dire che più di qualcosa non funzionava; ma non avevo esperienza e visione, ho semplicemente pensato di essere la parte marcia della coppia, il solito “mezzo artista” a cui manca sempre la terra sotto i piedi, e che avrei fatto bene a rientrare in quell’opportunità che mia moglie mi concedeva perdonandomi.
In questo senso dico che bisognerebbe vivere due volte; una per comprendere e l’altra per mettere in atto, ma ahimè non è possibile.
Siamo arrivati ad oggi tra alti e bassi, abitudini e mancanza totale di sesso da oltre un anno e mezzo, quasi due. Ma mancanza di sesso intesa come punta dell’iceberg, perchè mancavano comunicazione, soprattutto il “non verbale”; mancavano gli sguardi, mancava la stima e la complicità, il sentirsi apprezzati e accettati nonostante le differenze che negli anni passati avevano costituito il “plus” della nostra famiglia.
Io mi trovo di nuovo, un pò per questi anni portati “bene” e un pò per inconscia insoddisfazione, a frequentare un’altra donna, prima sui social, poi di persona. Ci innamoriamo, passa un anno e chiedo a mia moglie di sederci e parlare di noi. Non le dico dell’altra donna per non scaricare addosso a lei un ulteriore elemento di tortura e dolore, ma le chiedo di guardare insieme a me a ciò che siamo diventati, ovvero fratello e sorella, ci si vuole un bene immenso, ma non ci si ama, che non c’è desiderio perchè manca tutto quello che un desiderio lo costruisce, tutto quello di cui un desiderio è solo l’esito finale.
E non è un fatto fisico, non può esserlo a 50 anni per entrambi superati da un pò, per quanto bene possiamo mantenerci fisicamente le attrattive sono altre.
Lei mi risponde che prova un sentimento per me e che se io voglio devo prendere una decisione da solo, accollarmi tutto il dolore e i sensi di colpa di aver rotto qualcosa di “ancora sano”. Poi tre mesi di mutismo, ci si ignora, ci si ammala, dentro, fino all’esplosione emotiva del Natale che bene o male implica uno stravolgimento nel cuore di tutti, in misure diverse.
A Natale quindi mi vedo una lettera sul comodino, in cui traspare estrema dolcezza (quella dolcezza scomparsa negli anni che io tanto amavo in mia moglie) e la richiesta di fare un nuovo tentativo, di andare da un professionista, di ricominciare. Al quale io rispondo, alla luce delle esperienze precedenti (e della completa indifferenza del nostro stato di inattività fino a quando non l’ho tirato fuori io, della serie che andava bene così..) che non me la sento, che potremmo anche tentare ma in tutta onestà lo farei senza porre troppa fiducia, conoscendoci e sapendo come sono già andate le cose.
Ne è seguito un altro periodo di mutismo, pianti in ogni momento, e completa cancellazione di ogni forma di comunicazione; che già era ridotta al lumicino da tempo.
Mi ritrovo dopo qualche tempo a sentirmi dire che “non hai le palle per prendere una decisione) e forse è vero.
Forse mi blocco per paura dei rimorsi, dei ricordi dei momenti belli e dl passato che però, di fatto, è passato.
Mi blocco perchè in questi 35 anni ogni decisione l’ho presa insieme a lei, mai imposta.
Certo questa non è la stessa cosa, questa è una di quelle cose che chi non desidera, deve subire e basta.
Ma questa sua posizione, diversa da quella che auspicavo di trovare in un confronto tra noi, mi ha spiazzato.
Come dire, tutto quello che succede e succederà l’hai voluto tu.
Io sto morendo dentro, per lo stress e per il dolore.
Non c’entra l’altra donna, che se anche non ci fosse sarebbe lo stesso, non è la causa ma la conseguenza di qualcosa che all’interno della mi avita non funziona più.
Quando si arriva al punto che il dolore tracima, come giustamente scrive lei, si avere quel desiderio di rifiorire e di riassaporare anche la gioia di un temporale, di un profumo, della vita in generale, che adesso è come se non esistesse. Eppure tutto si è bloccato davanti a questa sorta di ghigliottina che io devo attivare, prendendomi un carico emotivo gigantesco.
Sono addirittura arrivato a pensare di tornare indietro, di convincermi che posso reinnamorarmi, ma la ragione mi dice che nulla può essere ricomposto e soprattutto essere come prima. Guardo mia moglie e mi fa tenerezza, non provo che tenerezza per lei; mi dico che le sto facendo del male a restare così, ma non riesco a sbloccarmi e sentirmi l’unico artefice di quello che lei chiama fallimento.
Tutto qua, non so perchè ho scritto così tanto forse un’ennesima richiesta di aiuto o semplice sfogo.
Spero possa essere utile per chi come me vive questo momento che distrugge, fa a pezzi; talvolta fa desiderare di non esserci più.
Grazie per le cose che scrive e per avermi letto sin qui.. un sincero in bocca al lupo per tutto.
Giancarlo
Buongiorno Giancarlo e grazie per essersi raccontato. Nonostante sia un racconto molto lungo e con dovizia di particolari, è sempre il suo racconto del vostro disagio, non una consulenza di coppia vera e propria: il luogo della diagnosi clinica, della chiarificazione e della cura.
Per poterle dire qualcosa di sensato avrei bisogno di conoscere lei, sua moglie, la vostra storia emotiva, sentimentale sessuale, i vostri disagi coniugali, le vostre resistenze e i vostri cuori.
Lei scrive: “ Da un anno e mezzo sono in contatto con suoi colleghi che adottano percorsi diversi ogni volta, purtroppo spesso un pò lenti rispetto alla sofferenza con la quale si richiede aiuto”.
Cosa significa essere in contatto? con quanti colleghi? che tipo di percorsi ha effettuato? È una frase molto vaga che non mi fa capire se lei è in terapia, se non siete entrambi, che cosa avete fatto e perché non siete riusciti a cavare un ragno dal buco.
Leggendo la sua situazione mi sono rivista in mille momenti della sua vita e mi chiedo se sia riuscito a trovare una soluzione a questo male di vivere
Buongiorno Barbara,
la soluzione l’ho trovata, razionalmente; la difficoltà è applicarla.
La difficoltà sta nella reazione di mia moglie, nei pianti, nel dolore che appartiene in ogni caso ad una persona con la quale si è condivisa una vita intera, capace di anestetizzare qualsiasi ragionamento. Così passano i giorni, passa il tempo, e tra una manifestazione di crisi e l’altra ci si lascia vivere, spogliati di qualsiasi energia che consenta di prendere tutto e rovesciare con forza. Subentra la paura (“ma se mi ama così tanto, se soffre così tanto, forse sto buttando via qualcosa di prezioso e non me ne accorgo=? ma qualcosa è prezioso anche se in cuor mio non lo posso apprezzare fino in fondo, se non lo amo…? A..sono sicuro che non lo amo”..ecc).
Come avere, mi si passi il paragone un pò materiale, una super Ferrari che però non si ha intenzione di guidare; la si tiene in garage, il sogno di una vita, non la si toglie ma nemmeno si utilizza.
E il tempo passa via veloce.
Per questo chiedevo aiuto, per decifrare cosa fossero questi, se banali e “normali” sensi di colpa o se invece potessero nascondere insidie più grandi che in uno stato così confusionario non si riescono a decifrare.
Grazie a lei per avermi scritto, e permesso di risponderle.
Grazie per la sua risposta, Dottoressa.
Si, questo è il “mio” racconto di un disagio condiviso, quando mi riferivo al contatto con i colleghi intendevo un mio percorso personale prima, fatto con Psicologi sia in zona sia online, e poi di coppia, tentato senza tanto successo, al punto che dopo tre sedute non si è più continuato.
Il mio è stato un percorso interessante, anche utile nel consolidare alcuni aspetti legati all’infanzia, alla crescita e a ciò che in ognuno di noi si fortifica o si indebolisce nel corso delle esperienze di vita.
Le risposte che però cercavo non sono arrivate, poggi mi trovo stanco, privo di energie come se avessi due persone che vivono dentro me e richiedono costantemente risorse mentali. Al punto che siamo arrivati allo sfinimento – entrambi – e subentrano più sensi di colpa del dovuto, per aver trascinato mia moglie in questo baratro paludoso, di indecisione e paura di fare il classico salto nel vuoto. Così ci salutiamo con la mano come due conoscenti, ci guardiamo, io soffro e lei soffre, mi fa tenerezza e io forse le faccio rabbia. Ma restiamo così, legati ancora da qualcosa che non è palpabile, che non ci fa nemmeno sfiorare con un dito, ma ci tiene qui con ricordi e vissuto, con tutto quello ch esi è costruito che adesso sembra una follia buttare.
La stanchezza prende il sopravvento, il “chi me lo fa fare” è sempre lì che apre il cancello della”zona di comfort” per rientrare, la paura di sbagliarsi e di lasciar andare un amore che è semplicemente annebbiato c’è.
Ma non ci sono gli strumenti per rinascere.
Non c’è attrazione perchè non c’è complicità, quella che prima vedevo come una donna dolcissima adesso sembra un pistolero quando cammina verso me… ci siamo criticati, ostacolati e messi uno contro l’altra per ogni cosa, per i figli, per le idee… piano piano ci siamo allontanati.
Io sono finito con il cercarmi altrove le carezze e le attenzioni, per l’ennesima volta nella mia vita (non sono un seriale, ma ho già fatto questi errori e sono tornato poi sempre da lei perchè era lei che volevo); le cose che ho cercato fuori le avrei desiderate da lei, ma mi sono reso conto in questi ultimi anni che sono oramai impossibili, sia da chiedere (non comunichiamo) e sia da ottenere, per la differenza ra noi che si è acuita in modo tangibile.
So solo che ancora oggi dopo un anno e mezzo di assenza di contatto fisico e vita da “soci” più che da coppia, mi chiedo se possa di nuovo ritentare, tornare indietro, o se sia la volta buona (erano almeno 15 anni che non accadeva nulla), o se questo anno e mezzo di relazione extra da parte mia, al di là della donna che ho frequentato che non deve e non può sostituire una moglie nè essere la causa di tutto questo, sia la prova evidente che l’amore non c’è più da parte mia, e che quello che avverto è solo un legame di vita, forse di riconoscenza e sensi di colpa, e tenerezza.
Questa poi era la domanda iniziale che ponevo sempre ai suoi colleghi, è qui che mi blocco e non riesco a trovare convinzioni sufficienti per superare le “paure” e le incertezze.
Grazie ancora per avermi risposto.
Buongiorno,
Riguardo la prima parte dell’articolo:
Il sofferente/cosapevole che decide di salvarsi, arriva ad amare veramente?
Grazie