Marcella, nome di fantasia, è una mia paziente da un paio d’anni. Un giorno di gennaio mi telefona con fare insistente perché mossa da un’ansia insopportabile e intrappolata in un’angoscia profondissima. Il tono della sua voce era cupo e non lasciava presagire nulla di buono. Mi chiese di anticipare il nostro incontro perché profondamente scossa.
Marcella era sposata con Giuseppe, anche questo un nome di fantasia, da ben vent’anni. Il loro matrimonio andava avanti tra alti e bassi, tra un’attività chiusa e un’altra nuova aperta, tra un figlio e un altro, e un doloroso aborto.
Erano una famiglia in cammino, esattamente come tante. Non sembrava esserci il “seme della perversione”, così come lo chiamava Marcella.
Avevo seguito Marcella dopo la perdita del suo bambino: era una donna devastata dai sensi di colpa, si era messa in testa che la responsabilità della perdita della gravidanza era stata la sua. Aveva lavorato tanto, forse troppo, e non aveva avuto cura di quella vita che aveva in grembo. Era giunta in studio con una diagnosi di depressione maggiore e con un corteo di sintomi che non la lasciava respirare.
La chiamata urgente di questo mese di gennaio aveva invece altre caratteristiche.
Un giorno, rincasando prima dal lavoro a causa di un fastidioso e preoccupante capogiro, aveva trovato il marito chiuso in camera da letto.
Con fare misterioso aveva dato un giorno di ferie alla domestica, aveva preso un permesso dal lavoro, e si era rintanato in casa. Marcella era terrorizzata, aveva il cuore in gola, pensava che dietro quella porta della sua stanza da letto ci fosse il marito con una giovane amante.
Durante quella frazione di secondo che la separava dalla porta chiusa le passò la sua vita davanti: i suoi figli, la sua perdita, il suo lavoro e la sua depressione. Stava già tentando di dare nuovamente la colpa a sé stessa per questo presunto adulterio, ma la vita, questa volta, la stupì. Dietro quella porta, nella loro stanza da letto, sul loro letto, c’era il marito travestito da donna. Aveva indossato le sue calze, aveva il suo reggiseno e anche i suoi trucchi, sembrava un perfetto sconosciuto.
Il mondo di Marcella si sgretolò in un istante, ebbe la sensazione di avere una serpe in seno e un estraneo in casa. Chiuse la porta sbattendola con tutta l’aggressività e la rabbia che aveva in corpo e scappo via di casa piangendo.
Compose il mio numero di cellulare e, urlando, mi disse: “Dottoressa, mio marito indossa le mie calze! Mi aiuti, la prego”.
Tra una donna e un oggetto vince l’oggetto
Il feticista individua l’oggetto del suo desiderio in un oggetto inumano – come scarpe, mutande, calze e altro. Oppure si fa sedurre da un frammento del corpo: seni, gambe, piedi, collo, ascella dando vita al parzialismo sessuale.
Il feticista non riesce ad amare la donna per intero, ma brucia di passione pensando al suo piede, alla sua calza, alla sua scarpa. Non ha alcun dubbio: vuole solo un oggetto che le appartiene e lo preferisce all’incontro e allo scambio con l’intera persona.
Il feticista ha bisogno dei suoi feticci; dai quali è del tutto dipendente e senza i quali non riesce ad accedere alla complessa strada che porta al piacere e al godimento sessuale. Non approda alla dimensione relazionale e duale della sessualità.
Anche la dimensione auto erotica rimane intrappolata in un rituale ripetitivo e solitario avente come oggetto del desiderio un oggetto o una parte del corpo, e niente più.
I feticci per lui, che si tratti di parti del corpo o di oggetti inanimati, rappresentano il luogo del culto. Diventano per lui dei veri e propri idoli da idolatrare e curare, ai quali consegnarsi senza riserve alcune.
(Un mio paziente feticista del piede ha accompagnato la sua compagna a Bologna, in una clinica ortopedica per farle accorciare il quarto dito, a suo dire leggermente più lungo dell’altro. Questo è stato il suo regalo di San Valentino).
Il feticista sceglie il suo feticcio e lo sostituisce alla persona nella sua interezza. Il partner diventa il portatore del feticcio, e quando non si presta ai soliti giochi erotici, smarrisce totalmente di fascinazione. Il giocattolo si rompe e il feticista non riesce più a mettere in scena i suoi rituali erotici-amorosi-sessuali.
Il desiderio profondo del feticista è un desiderio idolatrato perché preferisce una parte o un oggetto all’incontro profondo con l’altro, nella sua interezza e complessità psicofisica ed erotica.
Un corpo di donna smembrato
Freud, già agli albori della psicoanalisi, aveva studiato l’attitudine che caratterizza il desiderio sessuale maschile, soprattutto. Il corpo della donna veniva smembrato in una molteplicità di “parti” dalle quali il desiderio del soggetto appare irresistibilmente attratto, e di cui non può fare assolutamente a meno.
Il desiderio sessuale del feticista non si nutre dell’incontro e del rapporto sessuale tra corpi erotici ma tra lui e una parte del corpo o un suo oggetto.
Il rapporto non è più tra soggetto e soggetto, ma tra soggetto (il feticista) e oggetto (seno, piede, scarpa, stivale).
La trappola delle parafilie non lascia scelte. Il feticista non riesce a fare altro, non conosce altri modi di amare e di avere rapporti sessuali. Non ha uno spazio interno integro, è invece abitato da un luogo psichico sufficientemente frantumato che non è in grado di accogliere l’integrità di un rapporto sentimentale e sessuale. Il feticista è innamorato del suo feticcio-oggetto: lo cura e lo accudisce, lo utilizza per tenere a bada l’angoscia di frammentazione e di disintegrazione che l’incontro con l’altro sesso gli elicita. Utilizzare esclusivamente il feticcio per approdare alla sfera della sessualità diventa per lui un potente meccanismo di difesa utilizzato per lenire l’angoscia.
Un partner per intero, anche se adornato da scarpe bellissime e calze sensuali, diventa animato e non più inanimato e inerme. Può andare altrove, può tradirlo e abbandonarlo, sino a scatenargli l’angoscia più angoscia che ci sia: quella di morte.
Il feticista consulta un terapeuta quando la solitudine tracima ogni argine della psiche. Quando pensa che la sua vita sarà fatta di solitudine e autoerotismo. Quando passano gli anni e desidererebbe altro. Quando spera ancora e quando desidera strappare la sua sessualità alla trappola della ripetizione.
Può capitare che il partner che sceglie, in maniera inconscia, abbia alcune disfunzioni sessuali. Una mia paziente che soffriva di anorgasmia – mancanza di risposta orgasmica durante il rapporto sessuale -, in un vero senso era felice che il marito amasse i suoi piedi. Quando non aveva voglia, metteva lo smalto, gli consegnava i piedi e lei nel frattempo lèggeva un libro. Questi equilibri però non sono durati a lungo.
Secondo Freud l’origine del legame malsano ma funzionale del feticista con il suo “oggetto-feticcio” risiede sempre lì: nelle terre dell’infanzia.
Il bambino diventato adulto vive sulla sua pelle e nel suo cuore la percezione penosa e insopportabile di castrazione del corpo della madre. Se la madre è stata una figura fallica e onnipotente, praticamente perfetta e della tutto idealizzata, è stata vissuta come priva di ogni lacuna e mancanza. Una madre elefantessa, come amo chiamarla io. Alla lunga il bambino, crescendo e vedendola con altri occhi, la percepisce come castrata, sprovvista del fallo. Da qui l’angoscia di cui parla Freud.
Il bambino mette in atto vari meccanismi di difesa della psiche per poter far fronte a un’angoscia così devastante. Uno dei meccanismi di difesa più frequentemente adoperato è la rimozione, che consiste nel dimenticare, anzi nel rimuovere del tutto l’accaduto.
Il bambino in cammino verso la dimensione adulta conserva la percezione integra e del tutto idealizzata della madre, non vuole vederla castrata e meno fallica di come pensava che fosse.
Le mutande, le scarpe, le calze o gli stivali, così come i seni e i tacchi servono al feticista per esorcizzare l’impatto angosciante che la castrazione materna ha avuto nel suo immaginario.
I feticista in terapia
In realtà, chi soffre di feticismo non giunge mai in terapia, se non quando viene scoperto o messo alle strette dal partner o dai figli. Le sue pulsioni erotiche sono perfettamente ego-sintoniche: in sintonia profonda con il suo sentire e il suo Io. Non sente la necessità di curarsi, non ravvisa altre strade rispetto al suo solito modus operandi amatorio.
È felice così. Le consulenze che più frequentemente erogo sono quelle destinate ai partner dei feticisti (o altre parafilie).
Si tratta di donne, solitamente, che si sentono profondamente tradite dai loro uomini. In prima battuta perché non hanno compreso prima della dolorosa scoperta di cosa si trattava, in seconda perché hanno una repulsione profonda per quello che i loro uomini fanno, per come hanno mentito e per come le hanno utilizzate sino a quel momento. Non pensavano che quel semplice, innocuo, e soprattutto saltuario, gioco erotico, fosse per il loro compagno di vita, nonché la centralità della sua esistenza.
Il feticismo tecnologico: la notifica, un preliminare erotico
Al giorno d’oggi siamo diventati tutti un po’ feticisti. Siamo profondamente legati, e anche affezionati, alle nostre protesi emozionali e tecnologiche. I cellulari.
Siamo in balìa di una sorta di “feticismo tecnologico” caratterizzato da un sentimento di affetto e dipendenza verso i nostri oggetti tecnologici. Strade maestre e ponti levatoi verso possibili evasioni sentimentali o erotiche. Che ci piaccia o no, viviamo circondati dalle nostre implacabili armi di distrazione (e seduzione) di massa: videogiochi, pay TV, smartphone, iPad.
Considerati come degli idoli della modernità, anche se non sono dei veri e propri sostituti del rapporto sessuale; a volte, soprattutto in tempi di pandemia diventano assolutamente indispensabili per accedere a un incontro erotico
Si può parlare di feticismo e di dipendenza dall’oggetto quando una relazione viene consumata trascorrendo più tempo con l’oggetto che con la persona nella sua interezza. Oggetto che, in questo caso, diventa dispensatore di piacere.