Ciao Papà
Racconto vincitore del concorso di scrittura “Siamo tutti scrittori”al Congresso Nazionale SIA Napoli.
“Il richiamo della morte è anche un richiamo d’amore. La morte è dolce se le facciamo buon viso, se l’accettiamo come una delle grandi, eterne forme dell’amore e della trasformazione”
Hermann Hesse.
Ciao papà, mi manchi da morire, ogni giorno di più.
La mia psiche ha fatto un pasticcio e nemmeno l’analista mi ha dato pace, mi ha chiarito alcune dinamiche, ma nulla può lenire il dolore e la perdita.
Ora ho fatto un intervento, ci voleva direi, ho spostato il dolore dell’anima a quello del corpo, talvolta funziona spostare da dentro a fuori, ma i benefici non durano a lungo.
Mi manca la tua voce calma, suadente, equilibrata e rassicurante; tutto andava bene per te, non c’era mai un problema e tutto era fattibile, hai creduto in me ed io sono andata avanti senza mai fermarmi.
La scrittura aiuta, ma non aiuta nella cicatrizzazione, che sembra essere quella di un paziente diabetico e per di più in uno stadio avanzato.
Ora i silenzi fanno rumore, le compensazioni sono le più svariate, ma a termine, e la famiglia smembrata. Tu eri l’ago della bilancia, il perno per le nostre esistenze, il baricentro che ci consentiva di “regolare il minimo”, di andare, di sbagliare e di elaborare, senza colpe e recriminazioni. E di tornare.
Non so cosa darei per tornare indietro a un solo giorno della tua malattia, anche il più brutto e il più buio.
Vorrei tornare al Policlinico, nel reparto di neurochirurgia, sapendo bene che l’intervento non sarebbe mai stato risolutivo e che, per volere della mamma, ti stavamo illudendo e costringendo verso un baratro di dolore e follia.
Ricordo quando parcheggiavo al policlinico con la mia Smart e la bambina, sempre trafelata e di corsa, lo sguardo era prontamente rivolto al cielo, anzi al primo piano, all’ormai tanto caro terrazzino del reparto dove fumavi, mangiavamo, facevamo fare i compiti a Lucrezia e Ruggero e chiacchieravamo cercando di prenderti in giro.
No, papà, io no, io ero sincera – forse troppo – e le nostre anime si parlavano anche in silenzio, ma la recita a copione obbligava alla finzione.
Sapevamo entrambi che ti stavamo accompagnando alla morte; fare finta di niente era un insulto alla tua grande mente, al tuo cervello che adesso ospitava un glioblastoma di quarto grado.
Il terrazzino del reparto, fronte alberi, era un appuntamento fisso, un luogo di ritrovo, un ritrovarsi ancora prima di perdersi del tutto.
Era settembre, ed il settembre siciliano e’ ancora caldissimo, la tua tanto amata barca era ancora a mare e tu non avresti mai più circumnavigato i Faraglioni di Acitrezza se non con il loro ricordo.
Io non potevo essere come il branco che ti veniva a trovare – tu mi avevi insegnato altro, tanto altro – tra finzione, evitamento del dolore e parole fatue, abusate e perfettamente inutili, per far finta che il problema non ci fosse o che stavi per operarti a un ginocchio.
Io volevo attraversare il dolore, lo volevo fare insieme a te, dirti quello che sei stato, l’Uomo meraviglioso che ci ha indicato dove guardare, senza dirci mai cosa vedere; non ci hai educate alla ricchezza, ma alla felicità, alla ricchezza interiore; così da grandi avremmo saputo il valore delle cose e non il loro prezzo.
Cosa sarebbe stato più giusto fare?
Farti operare o aspettare la tua morte: le strade portavano alla stessa meta, ma il percorso era differente, ben differente.
Ti avevano fatto il lavaggio del cervello, ammantandoti la verità, ma forse anche tu volevi sperare ancora, approfittavano della mia assenza per dirti che ce l’avresti fatta, che tutto sarebbe passato e, quando quella domenica mattina, dopo il colloquio con il medico di riferimento accettasti l’intervento, avevi già scelto la morte.
Alla domanda del medico: ” Sig Mario, si vuole operare, cosa ha deciso?”
Tu, saggio e sempre presente a te stesso, rispondesti : “Ogni cammino, comincia con un piccolo passo” ; citando Confucio.
Una piccola parte di te, alleata con la mamma e con la vita, era ignara del dopo e forse speravi ancora.
Io, caro papà, ero a Firenze al congresso Sia e stavo partecipando al concorso “Siamotuttiscrittori” era un gioco, ma per me rappresentava un vero antidolorifico, mi facesti promettere di non fermarmi mai, e così feci.
Al mio rientro eri già stato operato, per fortuna, arrivai la sera, eri ancora protetto da tutto e da tutti: un sorriso rassicurante, come a volermi dire ” Stai serena, sono ancora quì”
La sua prima domanda:
“Come stai? Come è andato il congresso? Hai mangiato?”
Lottavi tra la vita e la morte, un pezzo di cranio perforato e incollato con infinite graffette di metallo, tubi dappertutto ed il tuo pensiero da padre ero io, la mia salute, la mia preoccupazione.
Il dopo è stato terribile, ma lo sapevamo bene.
I lobi frontali compromessi e i freni inibitori anche.
Eri un altro, un padre che sconoscevamo.
Eri così con tutti, con la mamma, con Manuela, con i medici, ma non con me.
Con me, eri lucido, addolorato e ferito, sapevi che potevi sentire il dolore e la vicinanza della morte senza dover recitare.
I freni inibitori erano andati via.
Se ti arrabbiavi, eri tempesta.
Se eri triste, un nubifragio.
Se sbuffavi, un uragano.
Finalmente dicevi quello che forse non avevi mai avuto il coraggio di dire.
Con me, piangevi, eri autentico, sapevi che me lo dovevi, spesso, piangevamo abbracciati in silenzio.
Non avevamo bisogno di parole, le emozioni e le lacrime comunicavano per noi.
Ogni giorno, tra radioterapia – perfettamente inutile, ma lo sapevamo bene – e prelievi, era una sfida, ma tu avevi smesso di lottare.
Ricordo un pomeriggio, seduta accanto al tuo letto, mente ti leggevo l’ultimo numero di una rivista di Barche; conoscevi tutti i cantieri navali, con alcuni di loro avevi anche corso e gareggiato, fu l’unico momento in cui eri fuori dal tuo tumore, forse, navigavi ancora.
Si erano invertiti i ruoli: io ti accudivo e tu ti facevi accudire.
Tu che vacilli, io che dovevo essere forte.
Tu che non cammini più, io che lotto per metterti in piedi.
Vai imboccato, cambiato, vestito, spogliato e io che devo essere forte.
Il pudore è andato via, il bisogno ha occupato ogni stanza delle nostre vite.
Ma tu rimanevi “grande” nell’archetipo interno, un grande uomo, un grande padre.
Sei così fragile che non hai più maschere da indossare, la mia non è mai esistita, quella degli altri si, solo per proteggerti.
I bambini e i parenti, sembrano dei buffoni da circo, tutti intenti a strapparti un sorriso, ma so che per te l’autenticità era fondamentale, forse qualcuno ti avrebbe dovuto parlare di Dio e di come cercare di parlare con noi anche dopo la morte, ma di morte non si parlava mai.
Aleggiava su di noi con le sue ombre persecutorie, ma si faceva di tutto per far finta che non ci fosse.
Io, mi sento ancora più legata a te, legata dal dolore e dalla perdita, e forse questo è uno dei tuoi ultimi regali: mi hai concesso di entrare nel tuo dolore.
Mi ripeto ancora, e non mi perdono, se sarebbe stato coretto dirti la verità, la cruda verità: quanto tempo avresti vissuto, soprattutto come, con o senza l’intervento.
So che lo avresti voluto sapere.
Avresti anche potuto decidere di aspettare la morte sulla tua barca, in riva al mare di Acitrezza, e noi avremmo dovuto accettarlo, senza accanimenti terapeutici e sevizie varie, per lenire il nostro dolore e nutrire le nostre speranze.
Sei stato un papà meraviglioso, dolce e autorevole, riservato ed empatico, presente e distante, anticonformista e ligio alle regole. Unico.
Non so se sarò in grado di essere come te con Lucrezia, è difficile; spesso, mi sento fragile e molto sola.
Avrei voluto trovarti in cucina con i tuoi libri e i tuoi buffi occhiali a leggere vorace, curioso e pensante.
Avrei voluto sentire ancora la tua voce calda, calma e profonda.
Avrei voluto ancora vedere le tue mani operose e a lavoro, a servizio della tua mente.
Avrei voluto vederti con mia figlia in giardino a zappare, piantare alberi, a parlarle della vita e di filosofia.
Avrei voluto vedere la mamma arrabbiata perché ti trovava a mangiare pane e olive fuori pasto.
Avrei voluto telefonarti la sera ed inondarti di tutte le mie cose, stupide, importanti, lavorative, emotive.
Avrei voluto farti vedere il saggio di nuoto sincronizzato di Lucrezia.
Avrei voluto scegliere con te il suo liceo.
Avrei voluto portarti dall’Africa le spezie, la cannella, il loro pepe e il loro riso, so che ti sarebbe piaciuto molto.
Avrei voluto inviarti un messaggio a mezzanotte del 31.
Avrei voluto chiamarti al mattino appena sveglia.
Avrei voluto vederti costruire, riparare borse rotte, zoccoletti staccati in casa e parlare dell’ultimo articolo, convegno o contratto.
Avrei voluto telefonarti in cantiere perché non sentivi il cellulare, mente eri rapito dalle tue barche.
Avrei voluto portarti ancora i miei dolci o i miei legumi.
E invece sono qua, davanti alla tua tomba, a parlare con una foto e a sentire un dolore che non passa, un’assenza che è presenza, a piangere senza rassegnazione alcuna.
Hai vissuto fino alla morte, ma non hai vissuto la tua morte, di questo ancora non mi sono assolta.
Così ho deciso che quest’anno, caro Papà, al concorso “Siamotuttiscrittori” verrai con me, andiamo a Napoli in Giugno.
Mi manchi da morire, grazie per quello che sei stato e per come sono. Adesso.
Tua figlia.
Valeria
Lui, lei e l’altra, lo stesso uomo amato e interpretato da due donne
Secondo racconto presentato al concorso di scrittura “Siamo tutti scrittori”al Congresso Nazionale SIA Napoli.
“Dove c’è matrimonio senza amore, ci sarà amore senza matrimonio.”
Benjamin Franklin
Un uomo, tre donne.
Mentre fanno l’amore, la prima donna, una prostituta, guarda il soffitto e dice: “quando pagherà…”
Mentre fanno l’amore, la seconda donna, l’amante, guarda il soffitto e dice: “quando ritornerà…”
Mentre fanno l’amore, la terza donna, la moglie, guarda il soffitto e dice: “quando lo ridipingerà….”
Email @ da Tiziana a Elena.
Ho riflettuto a lungo se scriverti o meno, ma ho pensato che era la cosa più giusta da fare.
Non lo lasciare, non interrompere questa relazione, lui sta male senza di te e soprattutto non sopporta più me.
Comprendo il tuo sentire, io ho da lui il suo quotidiano, i figli, la nostra casa, appartenente sembro avere tutto, ma credimi non è affatto così, io ho solo il peggio di lui e soprattutto non ho lui.
Tu, hai tutto quello che una donna può desiderare da un uomo che ama.
Hai la sua mente, i suoi segreti, i suoi sospiri, le sue emozioni, io non appartengo più al suo mondo da tempo e tantomeno alle sue fantasie erotiche…
Non pensavo che una moglie potesse mai scrivere una lettera all’amante di suo marito, invece sento di doverlo fare.
Lui non ci lascerà mai, è stato educato- forse esageratemente- con rigore, regole morali, senso del dovere, anche tu ami quello che amavo io di lui.
Sente il peso della crescita dei nostri figli, le cose da ultimare, la sua presenza – austera, ingombrante, infinita – in casa, è per i bambini una certezza.
Ma lui ama te e senza di te, non vive e paradossalmente non da a noi.
Tu hai di lui il meglio della sua vita psichica ed emotiva.
Purtroppo ho letto qualche vostra email ed il dolore è stato atroce…
Ho pensato più volte di andare via, di dire che sapevo tutto, che nulla sarebbe stato più come prima, di rovinare la tua reputazione, ma sono fragile, ferita e non voglio togliere il padre ai mie figli.
Mentre leggevo le vostre promesse d’amore, il mio cuore accelerava, decelerava, credevo si fermasse, un nodo alla gola mi faceva compagnia e mi attraversavano la mente infiniti tasselli della nostra vita che è stata e che non sarà mai più.
Adesso lui ama te, ma non lascia me, questo è il vero paradosso di quello che ci sta accadendo e che ci accomuna, mio malgrado.
Triste beffa del destino.
Senza di te nella sua/nostra vita tutto non funziona.
Pensavo che sarebbe stato meglio, un riscatto dalla sofferenza.
Non è così. Ha lo sguardo triste, spento, vuoto ed ingabbiato dalle regole morali interiorizzate che non gli consentono di spiccare il volo.
So bene che tu hai bisogno di cose concrete, di divani e della pizza del sabato sera, di Ikea e del carrello del supermercato, della vacanza al caldo o natalizia, ma credimi, vorrei tanto essere al tuo posto ed essere la donna con cui non abita, ma con cui abita nella mente e nel cuore e che ama e desidera fortemente.
Si, vorrei essere l’amante.
L’altra.
L’amante di mio marito.
La donna per la quale fa finta di portare fuori il cane, per la quale scrive chiuso in bagno – tirando l’acqua per mistificare la sua sosta prolungata – per la quale non dorme la notte se lei non gli risponde, la donna che pensa e per la quale soffre, quando si sente costretto a fare l’amore con me.
Non pensavo mai di dover desiderare di essere l’altra, si l’altra rispetto alla moglie, ingrigita, consapevole, tradita e sofferente.
Sai, fare la moglie, non è facile, è un percorso irto di difficoltà.
Inizi con la fede lucida al dito, hai il cuore che scoppia di gioia ed è depositario di promesse d’amore, di sacrifici voluti e di sogni nel cassetto.
Poi inizi il cammino, ma man mano ti perdi, smarrisci quei sogni così importanti ed il luccichio che accompagna quel cammino si trasforma in fatica, in acredine e tensione.
L’altro sembra portare il peso della vita e – spesso – quel peso sei proprio tu: la donna che ha scelto come compagna di vita e come madre dei suoi figli.
Poi arrivi tu, l’altra, che gli illumini il cammino, che gli fai battere il cuore.
Si, arrivi tu, dopo le rate del mutuo, dopo i conti per arrivare a fine mese, dopo i libri da acquistare a settembre e gli orari da far combaciare, arrivi quando il pranzo diventa una corsa e la sera il rifugio per la stanchezza della giornata.
Tu, bella, radiosa, risolta e senza figli, gli illumini il cammino, diventi il luccichio smarrito e la vita sembra sorridergli nuovamente.
Io, divento il peso delle giornate, tu il suo talismano in tasca.
Io, sono la donna che cucina, che accudisce, che piega la biancheria a tarda sera, tu colei che gli invia la email della buona notte facendogli battere il cuore ed inondandolo di desiderio.
Ho anche sperato di essere l’altra di qualcuno, di ricevere il buon giorno e la buona notte, ma la mia coerenza non mi consente di cedere a qualche spasimante stagionale.
Mia nonna mi ha insegnato tanto della vita, si aveva soltanto la quinta elementare – ma sapeva molto di più di me che ho una laurea – conosceva il mondo, l’animo umano ed i suoi detti erano sempre veritieri e lungimiranti.
Mi diceva sempre che soltanto quando sai quello che vuoi, non prendi quello che passa.
La conoscenza di se stessi è il primo passo verso la felicità.
Lui, il “nostro lui”, è andato via restando: è andato via con la mente e con il cuore ed è rimasto con il corpo, la punizione peggiore per chi invece ama ancora.
Lo guardo freddo, chiuso a chiave nelle sue riflessioni e convinzioni…il telefono rappresenta una vera e propria protesi emozionale, il mezzo per emozionarsi, per sentirsi vivo, per raggiungerti.
Di raggiungere me ha smesso da tempo, io rappresento le rogne, le cose da fare, concrete e faticose, le utenze da pagare, i figli da prendere a scuola, il pane da acquistare al rientro.
Dimmi tu, Elena, chi sta meglio delle due?
Tu che hai le sue emozioni o io che ho il suo broncio?
Tu che fai l’amore con lui in clandestinità, con desiderio e passione, o io, che faccio ginnastica di rado, aiutati dalla tua presenza/assenza?
Tu che senti il suo cuore battere per l’emozione e l’ansia di vederti o io che lo vedo dormire sul divano stanco ed annoiato dalla galera che è diventata la nostra famiglia?
Il vostro silenzio è un silenzio parlante, un silenzio che comunica, siete legati da un filo invisibile, che io però sento e vedo e che mi strazia l’anima.
Quel filo che noi non abbiamo mai avuto, noi che abbiamo firmato davanti a Dio amore eterno, fino a che morte non ci separi.
Ma chi ha il suo cuore, tu che non hai in contratto o io che ho la fede al dito?
Noi siamo abitati da un silenzio rancoroso, carico di astio, malumori, sento che mi attribuisce le colpe del mondo, sento di essere la sua malattia, il suo cancro, colei che lo sta divorando lentamente, colei che teme, che non sopporta, che tiene a debita distanza, ma che controlla perché controllato.
Sai è un vero gioco al massacro….tu, Elena, sei libera, non hai famiglia, non hai un uomo che soffre per te e non hai figli per i quali sentirti in colpa.
Sei la donna he tutte vorrebbero essere : giovane, bella, colta, innamorata e con un futuro dinnanzi a se, da far abitare da chi sarà all’altezza.
Ma perché hai scelto mio marito per la tua vita?
Forse è stato il destino che ha scelto per voi, forse.
Email @ da Elena a Tiziana
Ciao Tiziana,
non avrei mai immaginato di ricevere una tua email, ne prendo atto, mi faccio coraggio e cerco di risponderti con la stessa onestà mentale ed emozionale che hai avuto tu nei miei/nostri confronti.
Non voglio giustificarmi, negare, glissare o omettere, tu sai già e nessuna parola – anche se addolcita – può lenire la tua sofferenza.
Sappi però che anche per me non è stato facile.
Mi sentivo forte, blindata alle emozioni, non mi mancava niente …ma poi è arrivato lui, il nostro lui, è tutto ha cambiato colore e sapore.
La mia vita è un vero inferno e ti spiego anche il perché.
Se ho freddo non sono scaldata, se ho fame, mangio da sola, se ho paura devo fare amicizia con lei.
La distanza è così, atroce, dura, indiscutibile.
Non ci sono vie di mezzo per la solitudine.
Il calore dell’intimità dopo si trasformerà il dolore, i baci in assenza, il sospiro in atroce silenzio dei sensi.
Tutto verrà negato dopo e le date dei nostri incontri, dall’odore di buono e di spezie, diventeranno giorni da non vivere sul calendario. Giorni da far passare, giorni da attraversare, da dimenticare, da non vivere…come quando i militari fanno la stecca per far passare prima il tempo e riabbracciare i loro cari a casa.
Ma questa è vita?
È la sua brutta copia o cosa?
Forse la morte ci insegna la vita.
Forse il dolore ci insegna la paura della perdita e ci fa assaporare anche un solo istante di quello che chiamiamo vita, della quale non siamo consapevoli della sua esistenza, fino a quando non abbiamo paura di morire
Mi dipingi un uomo che non conosco, che mi è estraneo e che immagino a fatica.
Forse hai ragione, ho il meglio di lui, ma non ho lui.
All’inizio, dopo ogni strappo, c’era l’attesa, le date d’amore destinate ai nostri incontri e la ricucita dello strappo; in seguito, strappo dopo strappo, la sofferenza iniziava ad abitare tutte le mie giornate e nulla aveva sapore, ne odore.
Le giornate diventavano una sospensione dalla vita, una dolce quanto destabilizzante schizofrenogena scissione tra corpo e cuore, tra presente e futuro, tra oggi e domani.
Nessun ripasso dei ricordi era capace di regalarmi un attimo di presente.
La notte è un baratro di paura, ti svegli pensando di precipitare in un pozzo, le paure e la solitudine si amplificano e nessuno ti toccherà un piede per rasserenarti.
Sei sola e basta.
Il risveglio, sempre se di sonno si sia trattato, diventa una vera liberazione dall’inconscio, da quel luogo che sa e spera di non sapere per non dover mai decidere.
Le tue parole mi aiutano a decidere e ad andare via davvero.
Talvolta – durante gli strani percorsi della vita – le scelte del cuore fanno a pugni con le scelte sagge, equilibrate e spesso obbligate.
Emozione e ragione entrano in conflitto, mente e cuore non si parlano più e la vita sprofonda in un baratro di disperazione e di cupo dolore.
Riflettevo …
Donne che vivono con uomini che non amano, uomini che amano donne con cui non vivono.
Talvolta la vita poi, obbliga ad effettuare delle scelte e non tutte le scelte sono “scelte d’amore”, spesso sono dolorose “scelte di sopravvivenza”.
Ogni scelta porta con sé una perdita, proprio perché una scelta.
La vita è complessa e la vita psichica lo è ancor di più.
Quest’uomo a metà, diviso tra te – madre, serva, moglie devota – e me – innamorata ed infelice – rende anche le nostre vite spezzate, frammentate, abitate da briciole di presenza sparse qua e là….
Un amore è un amore anche se non ha un domani e la famiglia è da proteggere anche se non c’è amore.