Mi avevano detto in tanti di vedere questa serie TV, ma quando vengo pressata tendo ad essere evitante e fare l’opposto.
Non amo le mode, le serie TV e talvolta nemmeno la televisione. Poi, però, mi sono convinta anche perché il ruolo del figlio del Gattopardo, del principe di Salina, lo interpreta Alberto, un ragazzo a cui sono molto legata perché mi ricorda l’infanzia di mia figlia e la sua.
Alberto, da piccolo, era un bambino con gli occhi pieni di meraviglia, salvava i cani randagi e ogni essere vivente possibile.
Camminava scalzo sugli scogli in un posto bellissimo che si chiama porto Rossi, che si trova a Catania, al quale sono legati i miei ricordi più belli: mio padre, le sue barche, la mia, e tanto altro. Alberto seppelliva le anatre quando qualche barca per sbaglio le uccideva. Camminava scalzo e saltellava sugli scogli con un branco di cani che lo seguivano fedeli e obbedienti. Mia figlia Lucrezia era piccola e aveva la sua stessa età. Bionda, timidissima e gentile, esattamente come lui, amava e ama gli animali, i porti e i pontili, le barche e il mare, come suo nonno.
Così, mossa da così tanti ricordi, mi sono decisa di vedere il Gattopardo.
Ed eccomi qua a raccontarvi le mie sensazioni.
La serie
Il Gattopardo non è solo una serie TV, è un viaggio struggente nel cuore di un’epoca che muore e di un’altra che nasce. Come tutto ciò che cambia e che racconta le terre di mezzo mi ha rapita. Con una fotografia sontuosa e interpretazioni intense, la serie riesce a catturare l’anima malinconica del romanzo di Tomasi di Lampedusa. Ogni sguardo, ogni silenzio, ogni parola non detta pesa come una carezza e come una ferita. È una serie che incanta, che inchioda alla puntata successiva. Che avvolge in un’atmosfera d’altri tempi tra tessuti, tendaggi, frasi che camminano sotto pelle e la terra della luce: la mia Sicilia.
Gli attori sono tutti bravissimi, recitano con un’intensità tale da rimanere con te e dentro di te a lungo, anche a televisione spenta.
Il Principe di Salina, con la sua nobile ed elegante rassegnazione, incarna il dramma eterno del cambiamento: inevitabile, spietato, a volte persino ingiusto. Fabrizio, il principe, è un uomo d’altri tempi, ama profondamente la famiglia, le tradizioni, le buone maniere e il suo cane, che ricambia con altrettanta devozione. Come tanti uomini della sua generazione aveva la moglie che amava e una prostituita fidata – sempre la stessa – con cui dialogava, condivideva preoccupazioni e sospiri.
Incarna senza dubbio il meccanismo della scissione di cui parla Freud che spiega molto bene le problematiche di desiderio: “molti uomini amano donne che non desiderano e desiderano donne che non amano”.
Le tavole sono ben imbandite, come amava fare mia nonna, ci sono pizzi, merletti, candelabri d’argento e i piatti buoni, quelli della domenica. Poi c’è la figlia prediletta, quella delle viscere: Concetta, detta Donna Concetta.
Una ragazza in trappola, che racconta molto bene il complesso di Elettra, quello che in psicoanalisi è il perfetto contraltare del complesso di Edipo. Una ragazza destinata alla chiesa, a diventare la moglie di Dio, innamorata del padre che stima e che ricorda nei pensieri e nella testardaggine.
Concetta si rifugia in chiesa per scappare da una passione travolgente e sconquassante nei confronti del cugino Tancredi.
Tra le mura del convento si sente al sicuro, lavora, prega, ha rinunciato ad orpelli e cattivi pensieri, soprattutto quando il padre la consegna alla sofferenza del cuore autorizzando il matrimonio del suo amato Tancredi con la bella e libertina Angelica. Concetta, in seguito, è costretta a tornare alla vita familiare nei momenti più bui e di difficoltà, come quello della morte del fratello Paolo.
Gli aranceti, i limoneti, il profumo di zagara si percepisce anche dallo schermo della televisione, le terre immense e assolate raccontano la mia Sicilia in maniera magistrale ed evocativa.
E poi ci sono i cavalli, i Frisoni, i miei preferiti, che accompagnano fedelmente i loro proprietari da una tenuta all’altra e da un posto all’altro.
Ogni puntata è una poesia, un ritratto, un olio su tela che ti rimane incastonato dentro come se fosse una pietra preziosa ereditata dal tuo avo più caro.
C’è la buona educazione, quella che non si usa più, il rispetto per i genitori, per la madre e per il padre che incarna il Super Io, il senso del dovere, il divieto, il fare. C’è Tancredi, il nipote garibaldino che tradisce le origini pur di fare carriera e che tradisce quel patto segreto d’amore e di strazio che aveva instaurato con la cugina Concetta. C’è l’amore, l’appartenenza, la fedeltà e la coerenza, il tutto narrato con delle pennellate di profondità da farti credere ancora nei buoni sentimenti.
La figura di Angelica, ragazza umile ma affamata di riscatto sociale, con il suo comportamento disinibito seduce e irretisce il bel Tancredi.
La sua presenza consente a donna Concetta di brillare ancora di più per la sua forza e intelligenza, e per la sua purezza d’animo.
E poi ci sono le frasi celebri, talmente vere da non passare mai di moda:
– Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi
– i siciliani non vorranno mai migliorare perché si considerano già perfetti. Per loro la vanità è più forte della miseria.
– È meglio un male sperimentato che un bene ignoto.
Non sono mai stata così tanto orgogliosa di essere siciliana, di sentirmi appartenere a questa terra, alle sue tradizioni, riti e rituali.
Guardare Il Gattopardo mi ha lasciato dentro un senso di nostalgia per qualcosa – non so bene cosa – che sento di aver perduto.
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