I figli, proprio perché figli, possono essere cattivi. Lo siamo stati anche noi, sicuramente, ma non ne eravamo consapevoli. I tempi erano anche molto diversi da questo eccesso di modernità e non avevamo tanto spazio di manovra: le regole erano ferree e le parole e i gesti tremendamente ponderate.
Tornando a oggi, ma accadeva anche ieri, il ruolo genitoriale non protegge dalle aggressioni e non è un catalizzatore di gentilezze e affettuosità gratuite, ruolo-correlate.
Anzi, le ferite più dolenti si vivono in famiglia, dove l’amore è maggiore e le delusioni fanno più male.
Siamo abituati – anche noi clinici, Freud docet – a dare tutte le colpe ai genitori.
“Mia madre, mio padre, è stata troppo autoritaria, algida, aggressiva, ambivalente, ingombrante, altrove”.
Seguono gli attacchi feroci per un eccesso di presenza: un genitore iper protettivo sappiamo bene fare lo stesso male di uno evanescente.
Sembra proprio che la giusta dose d’amore e la giusta misura di presenza siano davvero chimeriche.
Durante queste vacanze ho visto figli orfani di connessione e genitori orfani di comprensione.
Scene di ordinaria follia dove l’amore era un lontano ricordo e dove il confine tra assenza (emotiva) e assenza di rispetto era sempre più sottile.
Della cattiveria dei figli non se ne parla mai, anche perché l’amore è discendente quindi un genitore può soffrire, preferibilmente in silenzio senza lamentarsi troppo.
Un figlio può punire in tanti modi, visibili e invisibili, questi ultimi sono decisamente i più dolorosi. Può farlo con l’egoismo e l’egocentrismo esasperato; “vabbè è giovane, crescerà!”, solitamente si sente dire.
Con l’anaffettività o disaffettività – ma i genitori sono comprensivi, devono essere comprensivi, sono genitori, e si accontentano delle briciole – crescerà, si dicono e imparerà a voler bene, come se l’affetto fosse un patrimonio dell’età adulta.
Un figlio può ferire in tanti altri modi: sottili, latenti, silenti, inconsciamente intenzionali o per leggerezza e immaturità del sentire e del vivere.
Un figlio può anche amare, voler bene in silenzio senza ostentazioni e doni, con la profondità del sentimento, con la maturità del bene che non correla o non dovrebbe correlare con l’età anagrafica del figlio ma con la qualità del legame con i genitori e con la luce che ha o non ha nel cuore.
Quel genitore a cui nessuno ha insegnato a diventare padre o madre, che lo ha tenuto in grembo con immenso amore e protezione, che ha stravolto la sua attività lavorativa e che lo rifarebbe ancora e ancora per occuparsi di lui o di lei, che lo ha passeggiato quando era insonne, ammalato, impaurito, che lo ha aspettato sveglio quando era adolescente e che ha duellato contro tutto e tutti per assecondare le sue scelte del cuore e di vita. Quel genitore che lavora sodo per aiutarlo a costruirsi un futuro e una coscienza e che lo pone sempre un passo – e forse più d’uno – avanti a sé.
Un figlio che vuole bene può aiutare in casa perché ha voglia di farlo, senza minacce plurime, può cogliere una difficoltà, una fragilità, un bisogno del genitore (stiamo parlando di un genitore non di un conoscente).
Può sentire senza bisogno di parlare, con pennellate di empatia, ma solitamente questo si realizza di rado, molto di rado.
Quando tutto questo non accade, però, solitamente la colpa è sempre e soltanto dei genitori, che come direbbe Paolo Crepet, rovinano i figli trattandoli da figli cronici, proteggendoli, ovattandoli, assecondandoli, togliendogli di dosso i mali del mondo.
Chissà chi difenderà anche noi genitori da tutti i mali del mondo?
Forse dovremmo imparare a farlo da soli, duellando senza pietà con il nostro esasperato ed esasperante senso del dovere e con suo fratello maggiore: il senso di colpa.
Tornerò a scriverne presto.

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1 Commento. Nuovo commento

  • A volte i figli, sono capaci di cattiverie indicibili. È vero che i tempi sono cambiati, e che adesso c’è anche più dialogo, ma credo che ormai i figli “ di oggi” siano diventati carnefici senza pietà.

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