Tu donna partorirai con dolore e tu donna, se vorrai andare a Sanremo, dovrai fare un monologo.
Il monologo sembra la penitenza dei giorni odierni.
In un festival pensato, gestito, condotto esclusivamente da uomini diversamente attempati e falsamente Boomer, dove le donne fanno da complemento d’arredo, è nata una nuova penitenza: il monologo.
Conquista della modernità le donne che valgano quel palco vengono chiamate co-conduttrici e non più vallette, letterine o veline. Giusto per regalare loro un certo tono nell’epoca del politicamente corretto.
In un momento storico egoriferito, caratterizzato da tristi soliloqui a suon di selfie e di post, il monologo mi sembra la concretizzazione del parlare da soli.
A meno che non si tratti di Gassman e di un teatro, dove il messaggio da mandare e il pubblico che ascolta sono decisamente diversi, il monologo a Sanremo è esattamente come avere conficcato un dito in un occhio. Tra l’altro è una lagna in piena regola.
Donne che giustificano la loro presenza sul palco, che narrano di sciagure tra bodyshaming, hacker, sventure varie ed eventuali, che instillano pietismo e riflessioni si guizzanti (fatto salvo per Drusilla e per la Ferilli che ha giustamente detto che lei non deve giustificare la sua presenza lì e che non ci voleva annoiare con monologhi terrificanti, ma era lì per la sua carriera)
Negli anni, le donne del festival sono state vallette mute, anziane attrici riadattate per l’occorrenza, mute anche loro, attrici di indiscussa fama e simpatia utilizzate sempre come complemento d’arredo, purché strizzate in abiti che non prevedono il respiro, donne di colore che con il colore giustificano la loro presenza rinforzando il razzismo (che cambia se una donna a Sanremo è bianca o nera, purché sia brava!) oppure devono obbligatoriamente incarnare il ruolo dell’oca giuliva ondeggiante preferibilmente un po’ svampita da rassicurare.
Finché i messaggi saranno questi – dei baci gay ne ho parlato a lungo sui miei social – non cambierà mai niente. Mai.
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