Tratto da “Un clandestino a bordo”, Viola editroce, il mio ultimo libro.

Ogni qualvolta mio padre rincasava dal cantiere, era sua abitudine riunirsi con il suo tanto amato e anziano cane dal nome atipico e dal temperamento dolcissimo: Piripicchio. Era un Carlino dai lineamenti buffi e dall’andatura dinoccolata. Aveva gli occhi rotondi e scuri, talmente liquorosi che sembravano essere la porta d’accesso verso il cuore. Il suo e quello altrui. Gli occhi di un cane dicono tutto di lui. Ti raccontano da dove viene e quali traumi ha subìto. Se si fida e si affida. Se è impaurito o coraggioso. Se ha sonno o fame. Se ti conosce o meno. Piripicchio, per gli amici Piri, aveva tutto il suo mondo dentro e addosso, fatto di paure e di pregressi abbandoni, ma non aveva smesso nemmeno per un istante di amare. E, tra tutti, il suo miglior amico, capobranco, suddito e regnante, era mio padre.
Quando veniva chiamato, Piri aveva l’abitudine di posizionarsi di fronte all’interlocutore e di ruotare la testa, verso destra o verso sinistra, per dimostrare che era lì, per te, pronto a regalarti il massimo della sua attenzione.
Non c’era alcun suono di cellulare, alcun profumo o possibile distrazione; lui era lì soltanto per te. Ti faceva sentire la sua presenza in modo unico, intenso, avvolgente e ti inchiodava ai suoi occhi neri. Quando Piri si sedeva di fronte a te, con la sua intensità e dolcezza, il mondo si fermava e la sintonia che aleggiava nell’aria era autentica e vibrante.
La sua età aumentava in maniera proporzionale all’amore pe mio padre, che non mancava mai di dimostrare, anche se anziano e cieco. Mio padre e il suo cane parlavano in silenzio, con il linguaggio muto dell’amore. Piripicchio era diventato sordo e vedeva a stento, la cataratta si era impossessata dei suoi occhioni neri. Ma il suo cuore era rimasto integro, per niente segnato dalla vecchiaia e dalla vita. Era, infatti, il suo organo-bussola preferito. Pulsava, vibrava, comunicava e scaldava. Guardarlo vivere per te ti faceva abitare in un caldo abbraccio.
Riconosceva mio padre dal passo e dall’odore di buono che emanava. Parlavano con i gesti: mio padre gli indicava le scale del giardino, e lui le imboccava sino ad arrivare sul prato, luogo del riposo e del gioco.
Si fidava di mio padre, lo avrebbe seguito in capo al mondo, anche senza i suoi sensi, che gli avrebbero dovuto indicare il cammino. Si faceva guidare dall’istinto, che lo conduceva dal suo cuore a quello di mio padre.
Ogni pomeriggio, quando mio padre rincasava dal cantiere, la loro passeggiata era un rituale. Risalivano insieme, stanchi e provati entrambi, dalla breve passeggiata sul prato di casa, e molto spesso mio padre, al rientro, lo riportava in braccio perché le sue vecchie zampe non gli consentivano di completare la rampa di scale. Poi si sedevano l’uno accanto all’altro sino a quando mio padre veniva rapito dalla lettura e Piripicchio dal sonno. Trascorrevano le ore che li separavano della cena in religioso e affettuoso silenzio. L’uno accanto all’altro. Ogni pomeriggio della loro vita, ogni primavera, ogni autunno. Nella malattia dell’uno e anche in quella dell’altro.

Tratto da:
“Un clandestino a bordo” Viola editroce
Valeria Randone

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