Tremate, tremate, le lettere son tornate.
E se invece di chattare ti scrivo? Ho voglia di lasciare il segno, quello grafico che cambia in funzione dell’umore e della pressione della penna sul foglio. Della penna, del foglio e di quello che voglio esprimere, incidere a fuoco, far arrivare a chi mi legge.
E poi l’odore della carta. La mia fragranza preferita. Quella intrisa di emozioni e paure, di desiderio e assenza.
La mia prima volta a Firenze ero stata invitata a presentare una relazione a un congresso nazionale di andrologia. Camminavo rapita e calamitata dalle vetrine di negozi piccoli e lussuosi, che chiamarli cartolerie o eliografie è altamente riduttivo. Avevo il naso appiccicato a ogni vetrina, mi sembrava un vero parco giochi. Sembravano negozi pensati per me, per la mia passione per la scrittura. C’era la carta color avorio, quella con il profilo color oro; c’erano le penne stilografiche, erano tante, anzi tantissime; c’erano le agende in carta e pelle (altro che quelle elettroniche tutte uguali), di tutte le misure.
Insomma, c’era storia, identità e individualità, e c’era futuro.
Quando amo scrivo (scrivo anche quando non amo più, sono arrabbiata, delusa, rattoppo un cuore, altrui o mio, insomma scrivo sempre), e consegno le lettere brevi mano. Amo consegnare ai pazienti i fogli con gli appunti che abbiamo scritto e il foglio colorato e ricercato con la data del nostro prossimo incontro. Mi sembra un dono simbolico, un ricordo del cammino condiviso.
Quando mia figlia era piccola veniva raggiunta dalle mie lettere che lasciavo sul suo comodino, oggi mi scrive su Instagramm e Whatsapp, ma io, per le comunicazioni emotive continuo a scriverle su carta e lasciarle le mie parole sul comodino.
Altro che faccine. Parole, parole, parole ricercate, forbite, pensate solo per chi le riceve e intersecate alle emozioni di chi le scrive.
Mittente me stessa, destinatario: me stessa nell’altro.
Le lettere rimangono le mie emozioni in corsivo preferite.

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