È successo ancora.
Ed è terribile, esattamente come sempre. Una donna di quarantadue anni è stata accoltellata in auto da suo marito – non da uno sconosciuto! – per di più dinanzi al loro bambino.
È successo a Saregno, in Brianza.
L’uomo era di nazionalità marocchina e si è subito costituito, ad efferato delitto avvenuto. Mosso, immagino, da un attacco acuto di coscienza.
A questo punto mi chiedo: colei che dà la vita è la più a rischio di vita, e su questo non ci sono dubbi.
Sarà mai possibile arrestare questa deriva della misoginia?
Quali lucchetti bisognerebbe adoperare? Quali punizioni? Quali strategie di prevenzione?
Da dove sarebbe utile cominciare?
Nessuna donna è al sicuro, e la cronaca ce lo ricorda ogni santo giorno delle nostre vite, purtroppo.
La violenza sulle donne non conosce né ceto né età, ma a quanto pare conosce bene il momento storico in cui viviamo.
Bianche, nere, giovani o anziane. Con la toga o con la minigonna, austere o socievoli, nostrane o straniere.
Mamme o mogli, le preferite.
Come se per essere uccise fosse indispensabile trovare un motivo valido.
Segue poi un’offesa verbale ancora più efferata della violenza: “te la sei cercata”.
“Te la sei cercata” è la violenza postuma più atroce che ci sia.
È l’acido sulla ferita sanguinante.
Smettiamola di dare la colpa alla gonna troppo corta, o al rossetto troppo rosso, o al tacco troppo alto, o al sorriso troppo comunicativo.
Talvolta la donna uccisa è la moglie in pigiama o in vestaglia.
E non balla sul cubo, semplicemente dorme a fianco del suo carnefice.
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